|
La parola “Cina” in cinese non
esiste.
I cinesi si riferiscono comunemente al proprio Paese usando il termine Zhongguó, composto di Zhong, "centrale" o "medio", e Guó, "regno", "Stato”: il nome
ufficiale Zhonghuá Rénmín Gònghéguó sta per Repubblica Popolare dello Stato di
Mezzo.
Il termine Cina, usato solo in occidente, ha origini incerte; appare per la
prima volta nelle relazioni di viaggio di un mercante portoghese (Marco Polo
aveva parlato del Catai), qualcuno sostiene derivi dal persiano, altri da una
delle prime dinastie regnanti, i Jin, altri ancora (ed è l’ipotesi più
probabile) dal nome del primo imperatore che riunì il paese, Qin Shi Huang
(260-210 a.c.).
Sia come sia, la Cina è una
delle più antiche civiltà del mondo, forse la più
antica in assoluto: da sempre.
L’alimento di base in Cina è il riso: la
resa della semina del riso può arrivare a 300 per ogni
chicco seminato: per il
frumento oggi la resa arriva al massimo da uno a trenta, ma ai tempi dei romani
o nel
Medioevo era da uno a quattro, uno a sei, di cui un chicco andava
conservato per la
semina successiva.
Il divario è significativo ed ha due
conseguenze almeno:
l’insufficiente resa del frumento
induce l’uomo occidentale,
prima alla domesticazione di numerose specie animali, soprattutto animali da
carne e da latte, ovini e bovini (poco diffusi in Cina, fino a tempi recenti),
poi lo spinge alla caccia ed alla guerra.
Lo sviluppo delle civiltà occidentali
è fatto di conquiste e di rapine.
In Cina il surplus alimentare consentito dalla coltivazione del riso è la base
dell’incremento demografico del Paese, del precoce sviluppo della sua
civiltà,
ma anche dell’autosufficienza del Paese: la Cina non ha bisogno di conquiste per
vivere, basta a se stessa.
Impero e dinastie
Non è qui possibile ripercorrere in dettaglio la storia millenaria di questa
nazione, troppo lungo e complesso è il susseguirsi delle dinastie, delle
rivolte, delle fratture e delle riunificazioni dell’impero.
Ci soffermeremo, su alcuni momenti salienti di questa grande vicenda,
significativi per aver determinato i lineamenti, lo sviluppo e la realtà attuale
di questo Paese.
La Cina conosce il suo primo vero periodo di unità sotto il grande imperatore
Qin Shi Huang (260-210a.c.), al quale dobbiamo anche la Grande Muraglia ed il
famosissimo esercito di terracotta.
Qin Shi Huang pone fine all’epoca dei “Regni combattenti”, riunifica, in parte
con la diplomazia, in parte con la forza i diversi stati: raggiunta l’unità del
Paese, conia per sé il titolo di huangdi (letteralmente "augusto sovrano”),
che da noi viene solitamente tradotto come “Imperatore”: perciò Qin Shi Huang è
anche ricordato come il primo imperatore cinese.
Negli ultimi anni della sua vita Qin venne ossessionato dalla ricerca
dell’immortalità, che riteneva potersi assicurare con preparati e pozioni di
ogni tipo: paradossalmente morì per avvelenamento da mercurio, contenuto nelle
pillole che i suoi medici gli propinavano come viatico per l’immortalità. Il suo
mausoleo si trova nei pressi del luogo dove è stata rinvenuta l’armata di
terracotta, il cui fine era appunto di guardare la tomba del sovrano. L’uomo che
aveva cercato l’immortalità in vita, la ottenne dopo la sua morte, per le sue
opere.
Gli archeologi non hanno ancora trovato il coraggio di aprire la camera
mortuaria: i resti di Qin Shi Huang riposano indisturbati da più di duemila
anni.
Qin fu anche un grande riformatore: abolì i feudi, organizzando l’impero in 36
province, ognuna retta da un governatore di nomina imperiale: ogni provincia era
a sua volta divisa in distretti amministrati da funzionari civili: costruì una
eccellente rete stradale, imponendo anche l’unificazione dello scartamento dei
carri, per migliorarne la fruibilità; impose l’unificazione di pesi e misure,
della moneta, delle leggi, ordinando anche la distruzione dei libri, per evitare
ogni possibilità di ritorno al passato. La rapidità delle riforme (che comunque
verranno riprese dai regimi successivi) e la brutalità con cui venivano imposte,
determinarono violente reazioni in tutto il paese ed alla sua morte la Cina
ripiombò nel caos.
Uno dei lineamenti caratteristici
della storia della Cina è l’alternarsi di fasi di disordini, divisioni, fratture
interne, a periodi di unità e concordia, che coincidono con i momenti di maggior
splendore, in una perenne ciclicità; è stato detto che l’occidente si è sempre
sviluppato per esplosione, per proiezioni verso l’esterno, le grandi conquiste,
gli imperi, le esplorazioni o l’attività missionaria, la Cina per implosione:
ripiegandosi su sé dopo ogni periodo di crisi, di guerre, di frammentazione in
stati diversi, la Cina ha sempre ritrovato se stessa, la sua cultura, la sua
forza, il suo destino.
I disordini seguenti la morte del primo Imperatore si placano con l’avvento al
potere della dinastia Han (200 a.c. – 220 d.c.), che pur conservando le
strutture amministrative del predecessore riesce a riportare il Paese all’unità
e promuove una fase di grande crescita economica e politica, con la conquista di
Mongolia, Manciuria e Corea: questa dinastia ha dato il nome all’etnia dominante
in Cina, gli Han; la Cina classifica, ancor oggi, la propria popolazione in
etnie , gli Han (i veri cinesi) 1100 milioni, Mancesi 9 milioni, Mongoli 4
milioni, Miao 9 milioni e via dicendo.
La caduta degli Han conduce ad un nuovo, lungo periodo di frammentazione e di
guerre intestine, da cui si esce con l’ascesa al potere delle dinastie Tang
(618-907 d.c.) e Song (960-1279 d.c.) che segnano la prima età d’oro della Cina:
a questi anni si possono far risalire l’apertura della via della seta (e quindi
lo sviluppo del commercio internazionale), ma anche le grandi invenzioni, che il
mondo occidentale conoscerà solo molto più tardi, come la bussola, la stampa, la
polvere da sparo.
Alla dinastia Tang si fa risalire anche la prassi, importantissima, dei
“concorsi” per la scelta dei funzionari pubblici. Sappiamo bene che l’occidente,
purtroppo, ha sempre selezionato le sue classi dirigenti, per diritto di
nascita, almeno fino all’età moderna: per i Romani valeva la “gens”, più di ogni
altra cosa, i Germani avevano il culto della “Sippe”(stirpe).
Questi concetti si radicano e si evolvono nel Medioevo, periodo in cui si
afferma e prevale la nobiltà per diritto di nascita: nobiltà che, di fatto,
governa il nostro continente almeno fino alla Rivoluzione francese.
Sorprende notare la totale estraneità a questo approccio del mondo cinese. A
parte l’imperatore, personificazione o interprete della divinità, nessuno aveva
diritti politici per nascita; fino dal VI/VII secolo d.c. la selezione dei
funzionari a tutti i livelli avveniva per concorsi, che avevano come oggetto il
pensiero di Confucio; questo pensiero è stato per secoli l’impalcatura teorica,
etica, politica e filosofica della società cinese. Proprio Confucio (VI secolo
a.c,) mette l’accento sull’organizzazione sociale e sul rapporto tra individuo e
collettività; proprio Confucio ammonisce le classi dirigenti che il loro potere
non può derivare da posizioni o ricchezze acquisite per nascita, ma dal valore
morale del loro operato.
L’ultima fase era presieduta dall’imperatore in persona, che sceglieva così, in
base a merito e cultura, ministri, governatori, funzionari di ogni grado, dal
centro alla periferia: una differenza culturale non da poco, rispetto ai nostri
paesi.
Vale quindi la pena di riassumere i caratteri dominanti del mondo cinese, come
li abbiamo qui sopra intravisti, per comprendere la specificità di questo
popolo:
Civiltà fluviale, quindi modello politico imperiale.
Civiltà del riso, quindi surplus alimentare, incremento demografico, sviluppo.
Civiltà che cresce per implosione, perché sostanzialmente autosufficiente.
Civiltà meritocratica.
Il declino della dinastia Song ed il contemporaneo apice della potenza militare
mongola con Gengis Khan (che aveva riunito sotto le sue bandiere le tribù della
steppa) aprono le porte alla prima dominazione straniera, che si impone con la
forza delle armi; Gengis Khan lancia l’”Orda Azzurra” alla conquista della Cina.
Superata la Grande Muraglia, i mongoli occupano il Nord del Paese, stabiliscono
la loro capitale a Pechino e fondano la dinastia “Yuan”:
l’imperatore conosciuto da Marco Polo, Kublai Khan, è un mongolo, nipote di
Gengis Khan.
Gli Yuan completano già con Kublai l’occupazione della Cina e tentano, per due
volte, l’invasione del Giappone; in entrambe le occasioni, una tempesta di vento
disperde la flotta cinese, da questo episodio deriva il termine giapponese
“kamikaze”, vento divino, inteso come evento salvifico contro una invasione;
sarà impiegato per denominare i piloti suicidi che avrebbero dovuto fermare la
flotta americana nella II Guerra Mondiale.
Con gli Yuan la Cina conosce il periodo di massima apertura al mondo
occidentale: l’impero mongolo si estendeva fino alla Russia (“Orda d’Oro”), alla
Persia ed alla Siria: i rapporti tra i vati “Khanati” erano intensi e frequenti
e così gli scambi diplomatici, economici e culturali. In Cina i mongoli, che
detenevano il potere, erano numericamente molto inferiori alla etnia autoctona,
della quale non potevano fidarsi e quindi sceglievano spesso ministri e
consiglieri tra gli stranieri che giungevano a corte; questo è il motivo della
buona accoglienza che ebbero i Polo, che furono impiegati anche in missioni
diplomatiche e militari.
Il limite della dominazione Yuan fu il potere concesso alla casta militare che
di fatto governava la Cina.
Alla fine, nel 1368, il malgoverno dei mongoli determina una vasta rivolta
popolare, che riporta al potere una dinastia autoctona, i Ming.
Sotto i Ming la civiltà cinese conosce l’ultimo periodo di grande splendore,
divenendo, secondo gli storici, lo stato più evoluto della terra. Si sviluppano
economia e commercio, viene approntata una grande flotta con navi di stazza pari
a 1500 tonnellate, si producono più di 100.000 tonnellate di ferro all’anno,
mentre il vasto impiego della stampa a caratteri mobili consente la crescita
culturale del paese; si sviluppano anche le arti, come testimoniato dalle
magnifiche ceramiche di quest’epoca. Con i Ming la Cina raggiunge la più vasta
estensione territoriale mai conseguita, grazie anche al potente esercito creato
dal primo imperatore della dinastia, Hongwu, che introduce una serie di riforme
che riportano il paese ai livelli di efficienza e benessere antecedenti alla
dinastia Yuan. Abolisce, ad esempio, il predominio della casta militare, imposto
dagli Yuan e riporta definitivamente in auge il sistema dei concorsi, per la
selezione della burocrazia amministrativa.
Al suo successore, Yongle, dobbiamo alcune delle più straordinarie opere di
questo periodo, in primo luogo la “Città Proibita”; già gli Yuan avevano eretto
una serie di padiglioni appena fuori le mura di Pechino (Bei Jin, capitale del
nord). Yongle li fece distruggere, erigendo al loro posto, dal 1406 al 1420, i
magnifici palazzi che diverranno la residenza di 24 imperatori delle dinastie
Ming e Qing: si tratta di un insieme di 960 palazzi, divisi in 8707 camere, che
coprono una superficie di 720.000 mq, il più grande complesso abitativo al
mondo. La Città Proibita è circondata da mura alte 7,9 metri e spesse 8,62 m;
oltre le mura corre un fossato profondo 6 m e largo 52: tradizionalmente la
città è divisa in “Corte esterna” e corte “interna”; quest’ultima era la
residenza dell’imperatore, mentre la Corte esterna era dedicata al cerimoniale e
a funzioni di rappresentanza.
Il “Palazzo della Suprema Armonia” e la sua splendida sala del trono, che ci
accolgono all’ingresso, riempiono ancora oggi di stupore i visitatori.
A Yongle si deve un’altra impresa di eccezionale portata, le sette grandi
spedizioni navali di Zeng He. Zeng He, un ambizioso e geniale eunuco di etnia e
religione musulmana, tra il 1405 ed il 1433, condusse la flotta cinese oltre il
Mar della Cina, attraverso l’Oceano Indiano fino al Corno d’Africa: una delle
sue spedizioni più importanti contava con 62 giunche e 28000 soldati, la più
grande spedizione navale mai vista fino allora; le giunche di Zeng He
disponevano di più piani (o ponti) sovrapposti, capaci di ospitare marinai,
soldati, ma anche merci pregiate, seta, porcellane, spezie, ed i mercanti che
erano i veri sostenitori delle spedizioni.
Queste spedizioni non avevano fini di conquista, come le spedizioni dei paesi
occidentali, ma ambivano ad espandere i commerci e le relazioni politiche, quasi
ad affermare una supremazia del Paese su di una zona di influenza. Costituiscono
uno dei momenti più affascinanti e meno conosciuti della storia cinese, ma
ebbero vita breve perché già nella seconda metà del ‘400 gli imperatori
iniziarono prima a limitare, poi a proibire le navigazioni oceaniche, con il
pretesto di dover fronteggiare la rinnovata minaccia mongola e gli attacchi
della pirateria giapponese: sembra viceversa che questa brusca inversione di
rotta sia stata dovuta al riemergere delle correnti neo-confuciane,
tornate in
auge proprio con la prassi dei concorsi, che i Ming avevano reintrodotto, dopo
la parentesi imposta dagli Yuan. Confucio infatti considera il commercio
un’attività parassita, l’unica fonte di ricchezza era la terra, al limite
l’artigianato: era ovvio quindi che la nuova classe dirigente, formatasi sui
suoi testi, cercasse di bloccare, con successo, queste nuove iniziative.
Anche i Ming conobbero la stessa sorte dei loro predecessori; il malgoverno
degli ultimi imperatori di questa dinastia generò disordini e rivolte, che
portarono rapidamente al collasso il potere imperiale.
Con la fine dei Ming inizia il declino della civiltà cinese.
La fine della dinastia Ming segna l’inizio del declino della civiltà cinese.
Si è discusso a lungo circa le cause di questo declino, che appare ancora oggi
inspiegabile visto il livello di sviluppo raggiunto nel primo secolo di dominio
di questa dinastia. Certo, volendo fare un confronto, il declino della civiltà
del Rinascimento in Italia fu ancora più rapido, ma qui le cause sono molto più
evidenti, guerre, invasioni, Controriforma, spostamento delle rotte commerciali
dal Mediterraneo all’Atlantico ed altro ancora.
Nulla di tutto ciò in Cina, non vi furono cause esterne, il declino della Cina è
un fatto endogeno.
Giova ricordare che i secoli XVI e XVII segnarono il decisivo sviluppo della
potenza degli stati europei, sviluppo trainato dall’imporsi di una nuova
borghesia mercantile e capitalista; proprio il sorgere del capitalismo è la
molla del progresso dell’occidente. Anche le guerre, frequenti e sanguinose non
furono di ostacolo, anzi promossero la creazione e l’adozione di nuovi
armamenti, sempre più potenti e micidiali, che costituirono anche la premessa
della superiorità politica e militare dell’Europa.
Le grandi navi, irte di
cannoni, capaci di abbattere ogni fortezza, erano il simbolo di questo
strapotere.
La Cina proprio in questo periodo sembra chiudersi in se stessa, in un
isolamento più psicologico che materiale, perché i traffici continuano, le
esportazioni conoscono un rapido incremento.
E' la convinzione di
autosufficienza, l’autoreferenzialità che separano la Cina dal mondo
occidentale, proprio mentre questo allunga il suo passo.
La debolezza e l’incapacità degli ultimi esponenti della dinastia
Ming sono state tra le cause del declino.
In un sistema autocratico,
fortemente accentrato, quale era il modello politico introdotto dai Ming, i
problemi al vertice si riflettono negativamente su tutto il paese.
Questi problemi si erano manifestati in diverse circostanze anche nel
passato, ma il Paese era sempre stato capace di risorgere più forte di prima.
Questa volta invece il declino continua inarrestabile, anche quando una nuova
dinastia riesce ad arginare i disordini; evidentemente le cause erano diverse,
in primo luogo il riaffermarsi dell’ortodossia confuciana a livello politico: la
dialettica, che da sempre è la molla della civiltà occidentale, non è una
componente del pensiero dominante in Cina, il fine per il seguace di Confucio è
la ricerca dell’armonia nella società civile, che così si cristallizza
nell’autoreferenzialità, rifiuta il confronto con il mondo esterno.
La crescita
di una borghesia mercantile, primo gradino dell’economia capitalista, non è
ammessa dall’etica confuciana, che vede solo nel contadino il produttore di
ricchezza, il mercante è un parassita. Così la civiltà più evoluta, avanzata e
sofisticata del mondo si avvia al collasso.
Il malgoverno e la corruzione imperante negli ultimi anni della dinastia Ming ed
i disordini che ne conseguono portano ancora una volta la Cina sotto una
dinastia straniera, i Qing.
La dinastia Qing non fu fondata dall'etnia degli Han, che forma la stragrande
maggioranza della popolazione cinese, ma dal popolo semi-nomade dei Manciù, che
si era reso indipendente, acquisendo coscienza di sé per la prima volta,
nell'attuale Cina nord-orientale, all’inizio del XVII secolo, dopo essere stato
a lungo vassallo dei Ming. Il capostipite della dinastia Qing era stato un abile
capotribù di nome Nurhaci, che si affrancò dalla soggezione ai Ming, riunendo
sotto il suo vessillo le varie tribù mancesi. Il figlio Huang Taiji, rinforzato
l’esercito incorporando unità cinesi, riuscì a sottomettere Corea e Mongolia,
impadronendosi anche, dopo la morte dell’ultimo Gran Khan, del sigillo degli
Yuan, gli antichi imperatori della Cina. Traendo vantaggio dall'instabilità
politica e dalle ribellioni popolari che sconvolgevano la Cina ( l’ultimo
imperatore Ming si era impiccato ad un albero della città proibita) , le forze
militari dei Manciù, guidate da Kangxi, primo imperatore della dinastia, si
riversarono nel 1644 nella capitale dei Ming, Pechino, e da lì soggiogarono
progressivamente tutto il territorio dell’impero.
Gli inizi furono positivi, anche se i Manciù vollero imporre ai cinesi anche le
loro usanze, come il codino (odiatissimo dagli Han) e la fronte rasata. Dopo un
secolo e mezzo di sostanziale stabilità, però. anche i Qing ebbero a conoscere
problemi di crescente gravità., dovuti, sia a disordini interni (rivolta dei
Taiping, i cosiddetti “Adoratori di Dio”), ma anche e soprattutto allo scontro
con le nazioni occidentali, in particolare la Gran Bretagna: questi eventi
portano il nome, vergognoso per gli inglesi, ma anche per tutti noi occidentali,
di “Guerre dell’oppio”.
L’oppio era stato introdotto in Cina dagli olandesi nel XVI secolo e
successivamente bandito dagli imperatori cinesi, giustamente preoccupati per la
salute dei loro sudditi.
Il 1700 vede una rapida espansione dei commerci con la Cina, scambi che si
svolgono però a senso unico, dato che in tutto l’occidente, Inghilterra in
particolare, cresce la richiesta di prodotti cinesi, diremmo oggi, di lusso,
come tè, seta, ceramiche (i servizi da tè si chiamano ancora, in inglese,
“China”), importazioni che non vengono compensate da acquisti
di beni inglesi
(la Cina era ed è autosufficiente), ma devono essere pagate in argento.
Per compensare questo squilibrio della bilancia commerciale, la Compagnia
Britannica delle Indie Orientali non trova di meglio che aggirare i divieti in
essere, esportando in Cina l’oppio prodotto in India. Si realizza una sorta di
triangolazione; gli inglesi si fanno pagare le loro esportazioni in India con
l’oppio ivi prodotto e con questo pagano le importazioni dalla Cina.
L’imperatore,
deciso a stroncare il triste commercio, invia a Canton, principale porto
d’accesso, un funzionario onesto e coraggioso, il mandarino Lin Zexu, che, dopo
aver scritto inutilmente alla regina Vittoria (che non si degna di
rispondergli), fa sequestrare tutto l’oppio su cui riesce a mettere le mani e lo
fa distruggere (1839).
Gli inglesi prendono questo affronto come “casus belli” e scatenano la prima
guerra dell’oppio, che rivela tutta l’inadeguatezza delle forze armate cinesi a
fronte dei cannoni e dei fucili occidentali. La guerra si conclude nel 1842 con
il trattato di Nanchino; i cinesi devono riaprire agli inglesi il commercio
dell’oppio in tutto l’impero, nonché i porti di Shangai e Canton: viene ceduta
agli inglesi l’isola di Hong Kong. Nel 1856 scoppia la seconda guerra
dell’oppio, inglesi e francesi giungono fino a Pechino ed impongono condizioni
ancora più gravose ed avvilenti, tra le quali la possibilità per le navi
occidentali di risalire i grandi fiumi, per estendere i loro traffici.
Il potere dei Qin, stretti tra l’arroganza degli stranieri e le rivolte
popolari, conseguenza di una cattiva amministrazione, declina rapidamente; è
evidente a tutti l’impotenza della Cina nei confronti dei barbari stranieri ed
il malcontento aumenta di giorno in giorno, investendo chi è al governo. Si
tenta di reagire: poiché gli stranieri giungono su potenti navi da guerra,
l’imperatrice Cixi, di cui parleremo, impone una tassa speciale al paese per
finanziare la costruzione di una flotta capace di confrontarsi con le potenze
straniere: poi, ottenuti i fondi, li impiega per scopi personali, si fa
costruire una residenza estiva alle porte di Pechino (Palazzo d’estate).
Qui, in un laghetto, si può ancora ammirare un vascello in marmo (nave del
sollievo o della purezza), fatto costruire anch’esso dall’imperatrice con i
fondi raccolti per la flotta, atroce sberleffo ai sacrifici del popolo cinese.
Anche così cadono gli imperi.
Cixi, penultima regnante della dinastia Qin, è stata anche l’unica donna che
abbia occupato il trono cinese per un lungo periodo; detta imperatrice madre o
imperatrice concubina, regnò per 67 anni, dal 1861, all’indomani della seconda
guerra dell’oppio, fino al 1908; era solo una concubina dell’imperatore, ma
anche la madre dell’unico figlio maschio, del quale, alla morte dell’imperatore,
assunse la tutela, per la sua minore età. Morto anche il figlio, prima di salire
al trono, l’ex concubina divenne tutrice del nipote, ma quando questi raggiunse
la maggiore età, Cixi non accettò di lasciare il trono e fece imprigionare il
nipote, restando sola al governo.
Con Cixi l’impero cinese vive il suo ultimo travagliatissimo periodo, combattuto
tra tentativi di modernizzazione, intrapresi dalla stessa Cixi , rivolte
contadine e sommosse xenofobe, la più nota delle quali va sotto il nome di
rivolta dei Boxer (1900). Boxer era il nome dato dagli occidentali alle società
cinesi che praticavano le arti marziali (“Società dei pugni celesti”), collegate
tra di loro da oscuri contatti e tutte ferocemente xenofobe; il loro obiettivo
era la cacciata degli stranieri, con ogni mezzo. L’assassinio dell’ambasciatore
tedesco e le misure repressive minacciate fanno esplodere la rivolta. Cixi,
posta di fronte al rischio di essere detronizzata, si allea con i Boxer che
assediano il quartiere delle “Legazioni” a Pechino, difeso da uno sparuto
manipolo di soldati inglesi e statunitensi (c’era anche qualche marinaio
italiano); poi l’esercito Qin e la folla dei boxer devono fronteggiare la
spedizione internazionale di otto nazioni (tra cui l’Italia) inviata in soccorso
dei residenti stranieri (la vicenda ha ispirato il film “55 giorni a Pechino”).
I contingenti stranieri occupano Pechino, Cixi è costretta a fuggire vestita da
contadina e deve accettare una pace umiliante, che estende la
extraterritorialità delle “Legazioni” a vaste zone del paese, l’Italia ottiene,
ad esempio, la città di Tientsin.
Cixi muore nel 1908 dopo aver designato al trono il
figlio del nipote, che lei stessa aveva fatto imprigionare, un bimbo di due
anni, di nome PuYi.
Oramai la crisi del sistema imperiale era all’ultimo stadio: si era sviluppato,
inizialmente tra i cinesi residenti all’estero, un nuovo movimento politico che
proclamava tre principi fondamentali, “Indipendenza nazionale” ( cioè cacciata
degli stranieri), “Potere del Popolo” (cioè democrazia), “Benessere del popolo”
(cioè riforma agraria); il movimento si costituisce come partito nel 1911, col
nome di “Kuonmintang”, Partito Nazionalista, e con un leader il Dr Sun Ya Tse
(ammiratore e seguace delle idee mazziniane) , che era stato fin dal principio
l’ispiratore del movimento.
Nello stesso anno la rivoluzione Xinhai, iniziata a Wuhan dallo stesso Sun Ya
Tse, rovescia il governo imperiale ed è lo stesso PuYi che firma l’instaurazione
della Repubblica con presidente provvisorio Sun Ya Tse e capitale a Nanchino (1°
gennaio 1912).
Il nuovo
regime è assolutamente debole, inizia una fase estremamente confusa della storia
del Paese: a Pechino si instaura un nuovo governo imperiale capeggiato da un
generale del vecchio esercito Yuan Sikai, mentre Sun è costretto a fuggire in
Giappone. Alla morte di Yuan Shikai, la Cina si frantuma; è il periodo detto dei
“Signori della Guerra”, cioè i comandanti provinciali dell’esercito imperiale,
che si dichiarano indipendenti dal governo centrale, ciascuno governa in
autonomia la sua provincia, spesso in feroce conflitto con i suoi omologhi. Sun
Ya Tse rientrato nel 1917, fonda di nuovo il Kuonmintang e cerca di organizzare
la campagna contro i Signori della Guerra; alla sua morte nel 1926, prende il
comando uno dei suoi più stretti collaboratori, Chiang Kai Schek, direttore
della scuola militare di Whampoa.
Chiang, grazie anche agli aiuti che gli giungono dall’Unione Sovietica,
riorganizza l’esercito ed inizia la “Spedizione del Nord” contro i Warlords: gli
si affiancano i seguaci del “Partito Comunista Cinese” nato nel 1921 da una
costola del KMT.
Ottenuti i primi successi e spostata la capitale a Nanchino, Chiang decide che è
il momento di liberarsi della minaccia a sinistra ed inizia una selvaggia
repressione del movimento comunista in tutti i territori da lui occupati. Nel
1928 viene nominato “Generalissimo” e presidente del Kuonmingtan e giunge ad
occupare Pechino, debellando così i “Signori della Guerra”. La guerra contro i
comunisti prosegue e con la quinta offensiva del 1934/35, Chiang sembra ottenere
un successo decisivo, i comunisti, circondati, sono costretti ad una -drammatica
ritirata verso il Nord, verso lo Yanan, detta “La lunga marcia”: in queste
circostanze emerge la figura di Mao Tse Tung, che in breve assume la guida del
partito.
La guerra sino-giapponese
La crisi dell’Impero cinese aveva da tempo destato gli appetiti di un suo
bellicoso vicino, il Giappone; con la guerra russo cinese (1905) i giapponesi
riescono a mettere piede sul continente, occupano Shandong prima e, subito dopo,
tutta la Corea. Non contenti di questi risultati, durante la prima guerra
mondiale, pur essendo in teoria alleati dell’Intesa (come la Cina), inviano al
governo cinese le “21 richieste”, che, se accettate, avrebbero trasformato la
Cina in un protettorato giapponese: la dura reazione delle potenze occidentali
costringe il governo nipponico a ritirarle, ma la crisi economica del dopoguerra
ripropone alla classe dirigente giapponese la questione della Cina, il cui
mercato appare come lo sbocco indispensabile per la produzione industriale del
paese.
Già nel ’27 i militari al governo in Giappone tentano di espandere con la forza
la zona di occupazione dello Shandong, ma la decisa opposizione di Unione
Sovietica e Stati Uniti li costringono a far marcia indietro; nel 1931 si cambia
obiettivo, la Manciuria, che era già un protettorato giapponese, viene occupata
militarmente a seguito dell’incidente di Mukden, inscenato ad arte da militari
giapponesi, e trasformata nel trampolino di lancio per il controllo della Cina.
Al fine di dare all’operazione un crisma di
legalità i giapponesi instaurano nella regione lo
stato del Manciukuò ponendo a
capo dello stesso Pu Yi che era stato l’ultimo imperatore Qin, un manciù,
quindi, almeno in teoria, rappresentativo della popolazione locale.
La condanna da parte della Società delle Nazioni non ferma il
Giappone, che ne esce nel 1933, mentre prosegue la pressione sui confini della
Cina, dilaniata dalla contesa tra il nascente partito comunista di Mao Tse Tung
ed il Kuonmintang di Chiang. Si susseguono incidenti e provocazioni da parte
giapponese, con lo scopo di intimidire la controparte, imponendo la
demilitarizzazione di importanti città, fino all’evento decisivo, l’incidente
detto “del Ponte di Marco Polo”, non lontano da Pechino, dove si scontrano la
guarnigione del ponte con reparti giapponesi in addestramento (7 luglio 1937).
Il ponte, costruito nel 1189, deve il suo nome alla stupefatta descrizione che
ne fa il grande viaggiatore. L’incidente del Ponte fornisce il pretesto per
l’inizio delle ostilità, il Giappone sbarca ingenti rinforzi e muove alla
conquista della Cina.
Nella guerra sino giapponese si possono distinguere tre fasi
Prima fase: 7 luglio 1937 (battaglia del Ponte di Marco Polo) - 25 ottobre 1938
(caduta di Hankou). In questo periodo l’esercito del KMT non è in grado di
confrontarsi con l’esercito giapponese, soprattutto a causa dell’arretratezza
dell’infrastruttura industriale del Paese; è quindi costretto a cedere Pechino,
Tientsin e, infine, dopo una sanguinosa battaglia anche Shangai. In pratica
l'esercito cinese deve limitarsi a rallentare l'avanzata giapponese verso le
città industriali del nord-est, cedendo spazio in cambio di tempo, in modo da
permettere di smontare le (poche) industrie esistenti per ritirarle verso
Chongqing ove ricostruire una base produttiva.
Seconda fase: 25 ottobre 1939 - luglio 1944. Stallo delle operazioni.
L’avanzata giapponese viene contenuta, ma questi sono anche gli anni in cui le
atrocità giapponesi raggiungono il culmine, massacri di civili, campi di
concentramento, lavoro forzato, esperimenti medici su cavie umane ed altro.
Chiang Kai Tschek e Mao Tse Tung decidono di interrompere la guerra civile per
far fronte comune contro l’invasore; grazie anche a questa cooperazione, le
armate cinesi riescono a colpire l'avversario attraverso azioni improvvise
miranti a tagliare le sue linee di rifornimento, bloccando così sul nascere
anche eventuali manovre offensive.
L’attacco a Pearl Harbour del dicembre 1941 modifica il quadro strategico
complessivo della guerra sino giapponese, facendola divenire parte del conflitto
generale. Chiang Kai Schek che fino a quel momento aveva evitato di dichiarare
guerra al Giappone per non perdere gli aiuti delle nazioni neutrali, Stati Uniti
in primo luogo, ma anche Germania ed Italia (fino alla firma dell’Asse),
formalizzò lo stato di guerra ottenendo un flusso crescente di aiuti americani e
venendo riconosciuto come capo di tutte le forze alleate di quel settore.
Terza fase: luglio 1944 - 15 agosto 1945. A questo periodo corrisponde il
contrattacco generale mirante alla completa liberazione del territorio cinese.
Gli Stati Uniti aumentano la loro presenza in Cina, aprendo anche numerose basi
aeree, che il Giappone cerca di attaccare, ma è poi costretto a ritirare
numerosi contingenti per affrontare l’avanzata americana nel Pacifico; la
tragedia volge al termine, il 6 agosto 1945 gli americani sganciano la prima
atomica su Hiroshima, il 9 agosto Stalin denuncia il patto di non aggressione
con il Giappone ed inizia l’invasione della Manciuria: un’armata giapponese
forte di un milione di uomini viene liquidata in pochi giorni. Il Giappone firma
la capitolazione in Cina il 9 settembre.
Nel 1945 la Cina uscì dalla Seconda guerra mondiale facendo parte, almeno
nominalmente, del gruppo delle grandi potenze che l'avevano vinta benché la
nazione fosse prostrata da una grave crisi economica e travagliata di fatto
dalla guerra civile. L'economia, messa in crisi dalla guerra, entrò in una grave
spirale inflazionistica anche a causa delle attività speculative di molti membri
del governo nazionalista, e subì ulteriori colpi a causa di fenomeni naturali
aggravati dalla mancata manutenzione del sistema idrico della valle del Fiume
Giallo, il cui straripamento provocò milioni di profughi e condizioni di vita
precarie in molte regioni.
La guerra lasciò il governo nazionalista indebolito e scarsamente popolare,
mentre rafforzò il Partito Comunista sia dal punto di vista militare che come
popolarità. Nelle "zone liberate" Mao Zedong fu abile nell'applicare i principi
del marxismo-leninismo alla particolare situazione cinese. Egli ed i quadri
dirigenti del partito si proposero alla guida delle masse contadine vivendo in
mezzo a loro, mangiando lo stesso cibo e cercando di pensare alla stessa
maniera. A queste tattiche si unirono anche campagne di indottrinamento
politico, di alfabetizzazione e di coercizione nei confronti delle classi
"agiate". L'Esercito di Liberazione Popolare si costruì un'immagine di fiero
combattente della guerriglia in difesa del popolo cinese, entrando in sintonia
soprattutto con i contadini, cui si lasciava intendere che gli espropri della
proprietà terriera sarebbero tornati a loro vantaggio .
Con queste premesse era scontato che la guerra civile, scoppiata all’indomani
della resa del Giappone volgesse rapidamente a sfavore del Kuonmintang, malgrado
gli ingenti aiuti provenienti dagli Stati Uniti, letteralmente divorati dalla
crescente corruzione dei ceti dirigenti; il 21 gennaio 1949 Chiang rinuncia alla
posizione di presidente della Cina, il 10 Dicembre un aereo militare americano
lo porta a Taiwan da cui non farà più ritorno.
Il 1° ottobre 1949 viene proclamata la
Repubblica Popolare Cinese, con presidente Mao Zedong.
Dopo anni di divisioni e guerre civili, la Cina ritrova infine unità e concordia
sotto un nuovo Imperatore, capostipite di una dinastia di imperatori socialisti.
Si chiude il circolo aperto con la destituzione di Pu Yi: dopo un vago tentativo
di instaurare una repubblica parlamentare, la Cina torna ad essere quello che
era sempre stata, un Impero.
Mao Tze-tung (1893 – 1976) fu uno degli artefici della
rivoluzione cinese:
Nacque da una famiglia di contadini non
particolarmente disagiata. Egli studia all’università di Pechino. Nel 1921 Mao,
insieme ad altri attivisti, fonda il Partito Comunista Cinese. Già due anni dopo
egli inizia a elaborare le strategie per controllo politico della Cina. L’idea
del controllo dell’ampio sostrato rurale cinese era già presente in questi anni.
Nel 1934 Mao conduce la lunga marcia a seguito della sconfitta del PCC da parte
del Koumintang. Negli anni successivi, dapprima riorganizza il PCC insieme a
Chou En Lai, poi stringe nuovamente alleanza con Chiang Kai-shek contro le
truppe imperiali giapponesi. Quando riesce a scacciare Chiang a Formosa, Mao può
prendere il controllo della Cina e imporre la riorganizzazione dello stato
secondo il modello socialista: era l’inizio della dittatura del partito
comunista cinese con a capo Mao Tze-tung.
Il primo e il secondo piano quinquennale. La rivoluzione culturale, la morte
di Mao. Gli anni ’80-’90 e alcuni accenni allo stato di cose attuale.
Il primo intento di Mao fu quello di affermare il PCC come unico partito al
potere, cosa che fece sin da subito nel suo intervento del 1° ottobre del 1949.
Il secondo passo fu quello di riorganizzare la Cina secondo il modello
socialista. Come abbiamo visto, Mao aveva accettato di far arrivare consiglieri
militari e politici dall’URSS, prima e durante la guerra civile. Alla vittoria,
dovette nuovamente fare una scelta di campo e si allineò alle direttive di
Stalin. Furono gli anni in cui due tra i tre più grandi feroci dittatori della
storia si ritrovarono in una comunanza di vedute.
Con il primo piano quinquennale (1953-1957) Mao avviò la conversione della
società cinese in società socialista. Il paese, fino ad allora prevalentemente
agrario, fu rimodellato da un molteplice piano di intervento generale su più
fronti: la riforma agraria condusse alla ridistribuzione della terra in mano ai
possessori dei grandi latifondi ai piccoli contadini. L’espropriazione della
terra non avvenne in modo indolore: causa di questa riconfigurazione della
gestione della terra si stima che i morti furono dai 30 ai 40 milioni,
considerando il fatto che la ridistribuzione della terra fu seguita fa un
iniziale momento di riassestamento e avvenne nell’arco di tre anni. La
produzione agraria ne risentì, determinando un crollo nella produzione delle
derrate alimentari. Ciò nonostante il piano fu portato a termine e la terra
cinese fu controllata da fattorie a gestione comunitaria. Il processo di
ridefinizione del sistema produttivo agrario fu portato avanti in particolare
nel biennio del 1955-1957.
Parallelamente, fu avviata una riforma dell’apparato statale e dello stato di
diritto riconosciuto in Cina. Mao fece riconoscere la parità dei diritti alle
donne e l’equità sul piano del diritto a tutti i cittadini cinesi. Mentre sul
piano istituzionale fu combattuta la corruzione e la dispersione delle risorse
sul piano gestionale.
Oltre alla riforma agraria, analoga a quella operata da Stalin in URSS con
prezzi analoghi, fu operato un massiccio investimento economico e tecnologico
nell’industria, specialmente in quella pesante. Se Marx elaborò le sue teorie
applicandole a stati già industrializzati sul modello inglese, è anche vero che,
nella storia, il comunismo si diffuse soprattutto nei due dei paesi a carattere
prevalentemente agricolo per quanto riguarda la produzione: la Russia zarista e
la Cina postimperiale. Per tale ragione sia in Russia che in Cina, dopo
l’espropriazione e ridistribuzione della terra e la conversione della gestione
della stessa da un piano privato ad uno comunitario, fu avviato un massiccio
intervento di potenziamento dell’industria pesante, quella considerata il
sintomo e il traino di ogni altra potenza industriale. Questa decisione fu presa
da Mao anche in seguito ai continui suggerimenti dei consiglieri dell’URSS
presenti nei quadri dirigenziali cinesi. In fine, Mao portò avanti anche una
riforma dell’istruzione.
La guerra in Corea (1951-1953), tra Stati Uniti e Onu e la Corea del nord, segnò
un momento decisivo dell’evoluzione della guerra fredda. L’URSS decise di non
intervenire direttamente in Corea ma solo di appoggiare l’esercito nord coreano
attraverso l’invio di materiale bellico e derrate alimentari. Mao colse
l’occasione per aiutare più massicciamente la nord Corea e inviò diverse forze
militari cinesi. A seguito di ciò, si innescarono i primi attriti tra le vedute
del “grande timoniere” Mao e dell'”uomo di acciaio” Stalin. Gli Stati Uniti
iniziarono la politica del contenimento globale contro il comunismo ma furono
abbastanza lungimiranti da non utilizzare l’arma atomica, come richiesto dal
comandante in capo dell’esercito, il generale McArthur. Gli scontri in Corea
furono impegnativi per le forze cinesi, non ben equipaggiate, e si stima che la
Cina perse circa 3 milioni di uomini in Corea. L’intervento in Corea fu
utilizzato come espediente per prendere maggiore distacco dal principale
alleato, un alleato scomodo con cui la Cina dovette confrontarsi a lungo.
Durante il 1959 alcuni scontri di confine si tramutano in una guerra tra la
confinante India e la Cina stessa: il territorio tibetano, già occupato dalle
forze cinesi, inasprì la tensione tra i due paesi fino a concludere in un vero e
proprio conflitto armato per definire i confini.
Dopo il primo piano quinquennale, parzialmente portato a buon fine dal PCC, Mao
avvia il secondo piano quinquennale, che doveva portare ad un ulteriore aumento
nella produzione agricola e industriale. Questa pianificazione, anche nota come
“Il grande balzo”, portò ad un disastro nella produzione: nel 1959 la Cina fu
colpita da una carestia di proporzioni consistenti, determinando malnutrizione,
fame e malattia in tutta la popolazione. A seguito di questo fallimento, Mao
decide di abbandonare la carica di presidente della Repubblica Popolare Cinese
nel 1958, prima che i risultati, già di per sé evidenti, prendessero tutto il
loro risalto.
Nel 1960 la Cina si distaccò definitivamente dal compagno russo, rimanendo
parzialmente isolata su di un piano internazionale. Fu da questo momento che la
Cina dovette scegliere se passare integralmente ad una moderata apertura nei
confronti dell’Occidente o rimanere relativamente legata all’URSS, sia
politicamente che economicamente. La scelta di campo della Cina fu decisiva. Ma
i risultati dell’apertura all’Occidente si videro solamente più tardi, come
vedremo. Successivamente, già nel 1965, ci furono altre ragioni di attrito tra i
quadri dirigenti cinesi e l’URSS: la Cina contava di sostenere maggiormente
l’esercito nord vietnamita per arginare la politica del contenimento al
comunismo degli Stati Uniti, i quali avevano dapprima fornito risorse economiche
e militari ai francesi durante la guerra in Indocina (cioè, in Vietnam) e poi
avevano sostituito l’esercito dell’Eliseo. Gli aiuti cinesi furono fondamentali
per il governo di Hanoi, laddove la famosa strada di Ho Chi Minh partiva proprio
dal confine cinese per scendere sino al delta del Mekong, coprendo così l’intera
dimensione del paese e giungendo anche al confine cambogiano.
Intanto il PCC conosceva una lotta di potere tra chi sosteneva una politica
filomaoista, cioè che seguiva le direttive del grande timoniere ritirato, e chi
voleva una maggiore apertura verso occidente. Inoltre, il disastro del secondo
piano quinquennale scatenò l’insoddisfazione anche all’interno dello stesso PCC
sul ruolo di Mao. Egli, di fatto, si stava dimostrando incapace di far ripartire
il grande paese ed, anzi, era riuscito ad imporre il primo piano quinquennale
con sistemi durissimi, con la repressione armata e con la conseguenza di un
crollo della produzione agricola. La carestia del ’59 non consentì ulteriori
interpretazioni sulle precedenti scelte politiche del regime. Lo stato di
malessere diffuso comportò anche la presenza di rivolte popolari. Mao, che non
aveva de facto mai abbandonato la scena politica, si rese conto che
l’opposizione al suo operato stava incalzando e per limitarne gli effetti lanciò
una nuova riforma: la rivoluzione culturale.
La rivoluzione culturale (1966) fu giustificata in nome del fatto che la
popolazione aveva necessità di rinvigorire il proprio spirito rivoluzionario
ormai infiacchito. Sotto lo spirito revivalista della rivoluzione culturale fu
intrapresa una spietata repressione dei quadri di partito e della popolazione
con idee non allineate. La purga operata contro gli oppositori politici interni
ed esterni al PCC fu portata avanti mediante sistemi brutali. Furono colpiti gli
intellettuali e i grandi centri universitari. I risultati sul piano sociale ed
economico furono devastanti: la Cina cancellò quasi interamente la maggior parte
delle teste pensanti del paese con un colpo di spugna e dovette aspettare una
generazione intera prima di poter ripartire con attività di ricerca di livello
adeguato ad una grande potenza. Inoltre, a seguito della repressione e delle
devastazioni e del malcontento diffuso la produzione agricola e industriale ebbe
un ulteriore momento di decelerazione. Per condurre l’operazione, Mao si premurò
di chiudere il paese nei confronti dei paesi stranieri. Nel 1967 un’intera
porzione del PCC era stata eliminata.
Nel 1969 Lin Piao si afferma come leader del PCC al posto di Mao, sebbene
continui a mantenere una struttura di partito seguendo le direttive del grande
timoniere.
Ma nel 1971 Lin Piao viene eliminato e le lotte intestine al PCC
riprendono per
la successione di Mao al potere.
Ancora nel 1971 lo stato di conflitto aumentò a
seguito della scelta di Chou En Lai, storico braccio destro del grande timoniere
e potente ministro degli esteri (considerato uno dei grandi geni della politica
del XX secolo), di riaprire la Cina agli stranieri, in specie, agli occidentali,
in pieno contrasto con quella che era stata la linea di riavvicinamento di Lin
Piao all’URSS. Il naturale rifiuto della cultura cinese ad elementi esogeni e
dopo il periodo di continua ingerenza degli occidentali all’interno della
politica cinese si può comprendere perché la decisione potesse essere così
capace di suscitare rimostranze in seno al PCC. D’altra parte, l’URSS era pur
sempre un alleato scomodo e la scelta di campo di Chou En Lai si dimostrò di
grande lungimiranza.
A seguito della decisione del governo cinese di riaprire il confronto politico
ed economico all’Occidente, fu immediatamente riconosciuta come membro dell’ONU
nel 1971. Il 1971 fu un anno decisivo: gli Stati Uniti, pur sempre convinti di
operare all’interno della loro politica di contenimento, sempre più invischiati
all’interno del conflitto vietnamita, ormai perso, si adoperarono immediatamente
per aprire i contatti diplomatici con il futuro colosso cinese. Gli USA,
infatti, furono da sempre interessati alla geopolitica dell’estremo oriente, in
particolare verso il paese della terra di mezzo. Il riconoscimento della Cina
nell’ONU deve essere visto come un primo passo, ma importante, di avvicinamento
degli Stati Uniti alla Repubblica Popolare Cinese, considerata già allora un
importante polo del futuro, sia per quanto riguarda il suo sconfinato mercato
interno, sia per quanto riguarda il potenziale sfruttamento della manodopera a
basso costo di un paese emergente. Nel 1971 il presidente americano Richard
Nixon si reca in Cina. Fu un evento storico, in cui Nixon colse l’occasione per
segnare un importante punto di contatto con il nuovo amico cinese. Nel 1972 il
premier cinese si recò negli Stati Uniti dove ratificarono alcuni importanti
trattati commerciali. Da allora, gli Stati Uniti saranno uno dei principali
partner commerciali e sociali della Cina.
Nel 1976 Mao Tze Tung muore. Alla morte ci fu una ripresa delle lotte intestine
per la successione al potere. In particolare, il gruppo dei quattro, guidato
dalla vedova di Mao, fu uno dei due poli in lotta. Lotta che riprese con ancora
più vigore a seguito della decisione di Hua Kuo-feng di varare un piano di
riforme economiche per ristrutturare il paese. Dopo un certo periodo, il gruppo
dei quattro fu sconfitto e ci fu una stabilizzazione della gestione del potere
in seno al PCC.
Il decennio degli anni ’80 vide una normalizzazione delle relazioni estere della
Cina con gli altri paesi del globo. In particolare, la Cina, pur mantenendo la
dittatura del partito del PCC, si apre sempre più agli interessi e ai capitali
occidentali, in particolare a quelli statunitensi. Gli Stati Uniti investirono
ingenti somme di denaro e di capitali in Cina, fornendole macchinari e supporti
logistici e tecnici. La Cina si serve degli investimenti di capitale
statunitensi per rimodernare l’apparato industriale improntato sull’industria
pesante, ormai del tutto fatiscente, per migliorare il complesso delle
infrastrutture e per avviare la ricerca scientifica e tecnologica nel paese. La
Cina aveva lasciato isolata l’URSS nella guerra fredda e questo è stato uno dei
motivi determinanti per cui l’URSS, e non la Cina, non riuscì più a mantenere il
controllo interno ed esterno delle forze politiche e sociali.
Sul piano interno, però, la Cina manteneva un severo controllo sulle forze
contestatrici del regime. Questo fatto, si mostra pienamente durante gli scontri
di piazza Tien amen. Innanzi tutto, bisogna comprendere che la Cina, in realtà,
è come l’Europa: è un insieme di province, grandi quanto stati, in cui le forze
centrifughe non sono trascurabili. Tutta la storia cinese è una continuità di
contrasti tra le province e il governo centrale. Inoltre, come si è cercato di
evidenziare, sin dal momento in cui i Qing erano in difficoltà, in Cina si
costituì un movimento di stampo democratico: il Koumintang era un movimento
nazionalista di natura democratica che, durante il proprio governo, aveva
effettuato regolari elezioni. La richiesta di un’apertura democratica del popolo
cinese al proprio governo è una costante della storia della Cina contemporanea e
ancora oggi l’esigenza del passaggio ad un governo democratico è un’esigenza
sentita all’interno della popolazione cinese. Durante gli anni ’80 si danno
diverse manifestazioni e rivendicazioni, soprattutto dalla classe degli
studenti, giovani che vedevano nella struttura politica una realtà non
egualitaria e insufficientemente elastica, giovani che avevano più degli altri
da rischiare. Lo scontro di piazza Tien Amen inizia come un momento di riunione
pacifica, per commemorare la scomparsa di Hu Yoabang. Il 5 aprile del 1989 gli
studenti scendono in piazza per manifestare a favore di Hu. La manifestazione
pacifica si protrae per due mesi e il governo cinese incomincia a nutrire
imbarazzo rispetto ad movimento che vedeva la scesa nelle strade di 500.000
persone, tra studenti e altri partecipanti. Il governo decide di reprimere la
manifestazione e, dopo ripetuti avvertimenti, il 4 giugno del 1989 l’esercito
cinese viene bloccato in piazza. Dopo aver richiesto la possibilità di
intervenire, l’esercito spara sui dimostranti con bombe a gas, mitragliatrici e
inviando i carri armati. La manifestazione fu, così, l’emblema di una
generazione costretta a rimanere nei ranghi e nell’ordine di una dittatura che
non accettava maggiore apertura nei confronti di un sistema politico più
democratico. Gli arresti furono più di 2000 e 27 le condanne a morte.
Gli anni ’90 vedono il compiersi della gran parte delle iniziative sociali e
politiche intraprese durante i
delicati anni ’70 e ’80.
Il governo cinese si allinea alla decisione delle
nazioni unite contro Saddam Hussein nella prima guerra del golfo, segnando un
momento di massimo avvicinamento alle politiche delle potenze occidentali. La
Cina è salita tra le grandi potenze industriali al secondo posto per quanto
riguarda la produzione dell’export e il suo PIL è uno dei più alti del mondo.
Attualmente fa parte dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), i
paesi emergenti che hanno i maggiori tassi di crescita economica del mondo. La
Cina mantiene importanti rapporti con tutte le principali potenze occidentali e
possiede gran parte del debito pubblico americano, il che la lega a doppio filo
con gli interessi americani, già così impegnati in Cina sul piano economico,
come abbiamo visto. La Cina, inoltre, ha firmato un importante trattato con
l’Italia durante l’ultimo governo Berlusconi.
Attualmente la Cina rimane ancora un paese in cui governa un solo partito, in
cui la maggioranza cinese
dell’etnia Han, domina sulle oltre duecentocinquanta etnie presenti sul
territorio cinese.
L’occupazione
armata del Tibet e l’invasione del Tibet da parte di popolazione di etnia Han
costituisce un serio problema sia nella politica interna che esterna della Cina.
E’ una realtà della politica contemporanea quella di usare i diritti umani come
scusa per attaccare il proprio nemico, mentre si predilige tacere sugli abusi
perpetrati da sé o dai propri alleati.
Oggi la Cina costituisce uno dei mercati
economici e di capitali più importanti del mondo e gran parte degli analisti
concorda nel considerare la Cina come un paese in ascesa. La loro moneta, lo
yuan, si sta rafforzando anche sul piano internazionale. Non ci sono dubbi sul
fatto che la Cina abbia ancora importanti problemi a livello economico, in cui
lo sviluppo cinese non può continuare con gli stessi mezzi con i quali è giunta
ad essere uno dei principali paesi industrializzati del pianeta. Inoltre, è un
paese con grosse difficoltà a livello energetico e la capacità della Cina di
sfruttare il proprio territorio nel modo selvaggio con cui ha sistematicamente
provveduto negli ultimi quarant’anni rimangono delle grandi ipoteche sul futuro
della Cina. Come lo è pure la situazione interna, in cui la popolazione a più
riprese richiede l’intervento di riforme che diano alla Cina un volto più
democratico e meno oppressivo. Ancora oggi in Cina si può venire arrestati per
delle ragioni politiche, repressive e di prevenzione. Rimane, però, una realtà.
La Cina è un grande paese e non si può ignorare la sua storia e la sua cultura,
come il suo giusto peso all’interno della realtà globale. Se dobbiamo sperare
nel futuro dell’umanità, se possiamo avere un po’ di fiducia nei confronti della
nostra storia, allora una quota importante di fiducia e speranza li dobbiamo
dare anche ai cinesi.
|
|