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Il mondo cinese
La Cina è un mondo che esiste da millenni in una sua
orgogliosa completezza, centro di irradiazione culturale e
punto di riferimento di tutto un universo che occupa una buona
porzione del nostro globo.
Noi continuiamo, però, a percepirlo straordinariamente lontano, indefinito; il
solo pensiero ci confonde, perché, sebbene
lo abbiamo visto in innumerevoli immagini televisive e
in molti film, sebbene abbiamo letto su di esso articoli di giornale e
osservato reportage, non sappiamo in fondo come immaginarlo:
ci mancano gli elementi per immaginarlo, in un certo senso,
dall’interno, per immaginare la percezione del mondo dei
cinesi, i loro valori spirituali, le loro aspirazioni.
La Cina è quella grande porzione di umanità che resta
essenzialmente sconosciuta al mondo occidentale.
Dopo aver cessato di suscitare
la nostra curiosità, i sogni, gli appetiti dai missionari cristiani
del XVII secolo agli uomini d’affari d’oggi,
passando per i filosofi dei Lumi e gli zelatori del maoismo,
resta questo gigante sconosciuto.
Dal punto di vista occidentale, la Cina è semplicemente l’altro polo
dell’esperienza
umana.
Tutte le altre grandi civiltà sono morte (Egitto, Mesopotamia, America
precolombiana) o assorbite troppo esclusivamente da problemi
di sopravvivenza in
condizioni
estreme (culture primitive), o troppo prossime a noi (culture islamiche, India)
per poter
offrire un contrasto così totale, una visione alternativa della vita così completa, un’originalità così
radicale e
illuminante quanto la Cina.
Soltanto quando consideriamo la Cina possiamo
davvero
prendere una misura più esatta della nostra identità.
Anche se
la Cina attuale appare invasa dai McDonald’s e dalla Coca-Cola, piena di centri
commerciali che suscitano
l’invidia dei più moderni e ricchi centri commerciali occidentali, i valori, le
relazioni, le
abitudini, le scelte compiute quotidianamente dai singoli individui, sono ancora
strettamente legati alla tradizione, e credo che cercare di
comprendere alcuni
aspetti fondanti
della cultura tradizionale sia l’unico modo per tentare di districarsi nella
complessità di
questo mondo.
La Cina odierna si divide in due entità statali che non si riconoscono l’un
l’altra, sostenendo ciascuna di essere l’unica entità
statale legittima al
governo dell’intera Cina: la
Repubblica Popolare Cinese (RPC) e la Repubblica di Cina (Taiwan).
La Repubblica
di
Cina fu fondata nel 1912, dopo la caduta dell’ultima dinastia imperiale (la
dinastia Qing,1644-1911).
Dopo la terribile invasione giapponese della Cina (1937-1945) e la
sanguinosa guerra civile che vide le forze legate al
Partito nazionalista al
governo scontrarsi con
le forze rivoluzionarie guidate dal Partito Comunista, nel 1949,
il governo
nazionalista
fu costretto a fuggire sull’isola di Taiwan che divenne la nuova sede della
Repubblica di
Cina.
Nello stesso anno, 1949, fu fondata la RPC, che domina la grande porzione
della
Cina situata sul continente.
Il territorio della RPC ha una superfi cie complessiva pari quasi a quella
dell’Europa, per
una popolazione che oltrepassa il miliardo e 400 milioni di abitanti.
Storicamente, in
tutti i periodi di prosperità, la Cina è stata caratterizzata da una popolazione
molto numerosa.
La Cina attuale confina con la Russia, la Mongolia, il Kazakhstan, il Pakistan,
l’India,
il Nepal, la Birmania, il Laos, il Vietnam e la Corea.
È evidente come questo
mondo, a
causa della sua stessa estensione geografi ca, sia venuto in contatto con le
culture più
diverse, dal mondo turco islamizzato, alla realtà europea rappresentata dalla
Russia,
alla cultura mongola, al mondo indiano e tibetano, al mondo del Sud Est asiatico
e quello
delle culture ancora più a Oriente. Tali realtà si ritrovano tutte all’interno
stesso della
Cina, rappresentate da porzioni considerevoli della popolazione: tendiamo
infatti spesso,
a causa sia della distanza, ma soprattutto di un’operazione di uniformizzazione
e omogeneizzazione culturale tipica
del mondo cinese, a dimenticare queste
importanti diversità
che lo abitano, a dimenticare per esempio
che la Repubblica Popolare Cinese è abitata da decine di
milioni di
musulmani e di persone di etnia non cinese, che parlano lingue non cinesi.
Solo l’11% del territorio cinese è costituito da terre coltivabili, che
corrispondono in pratica
alle
grandi pianure alluvionali del Fiume Giallo (Huanghe,
che scorre a nord), del basso
Fiume Azzurro (Yangzijiang, Changjiang o ancora Yangtse, centro-sud) e la
pianura del
Fiume delle Perle (a sud). Queste zone grosso modo corrispondono alla Cina
propriamente
detta; esse sono abitate da popolazioni di lingua cinese, e vanno distinte dalle
regioni
periferiche a cui accennavamo sopra (le principali: Mongolia, Xinjiang, Tibet),
abitate in
prevalenza da popolazioni non cinesi, con lingue di ceppo diverso e culture
assai lontane
da quella cinese. Un’altra zona periferica è costituita dalla Manciuria
(nord-est), la quale
però, in seguito a un secolare moto migratorio proveniente dalle regioni della
Cina centrale, è quasi completamente cinesizzata.
Lungo questi grandi fiumi, e in particolare lungo il Fiume Giallo e il Fiume
Azzurro, si
sono sviluppati i primi centri della cultura cinese propriamente detta, la
cultura degli Han, che è appunto l’etnia cinese prevalente (la Repubblica
Popolare Cinese oggi conta 56 etnie
diverse, le cosiddette ‘minoranze etniche’).
La Cina propriamente detta può essere divisa in due grandi regioni naturali, le
cui peculiarità contrastanti hanno contribuito alla formazione della civiltà
cinese.
Il Nord, dove
hanno sempre prevalso le colture asciutte (grano, miglio, sorgo, ecc.) e i
trasporti sono
stati per lo più terrestri, ha rappresentato per molti secoli il centro politico
ed economico
della Cina.
Caratterizzato da una certa carenza di difese naturali, è stato
sottoposto lungo
tutto il corso della sua storia
alle incursioni delle popolazioni nomadi
provenienti da nordovest.
A difesa di questi territori così esposti, nel corso
di vari secoli è stata edificata la
Grande Muraglia,
impressionante barriera difensiva, al giorno d’oggi solo in
minima parte
restaurata.
Il Sud, caratterizzato da colture di tipo sommerso (zona del riso) e in cui i
trasporti e le
comunicazioni si sono svolti per secoli prevalentemente sfruttando le risorse
fluviali e un
complesso e avanzatissimo sistema di canali, era in origine abitato da
popolazioni di ceppo etnico e linguistico diverso da quelle della Cina del Nord.
Il processo di integrazione
delle aree meridionali è stato un fenomeno molto lungo e di fondamentale
importanza per
la nascita della civiltà cinese.
Le zone del Fiume Azzurro, benché ricchissime
di risorse
naturali e adatte alla coltivazione, nel remoto passato furono a lungo
scarsamente popolate, e solo grazie a una serie di ondate migratorie provenienti
dal Nord furono nel tempo
completamente assimilate alla Cina propriamente detta e divennero un importante
centro
economico e culturale.
I cinesi del Nord e del Sud mantengono caratteri molto diversificati, nei tratti
fisici, nel
temperamento, nelle tradizioni sociali e alimentari.
È opinione comune che i
cinesi del
Nord siano fisicamente più alti e vigorosi, rudi, semplici, privi di artifici,
combattivi, più
legati alle tradizioni e grandi mangiatori d’aglio e di spaghetti.
I cinesi del Sud, fisicamente più minuti, sarebbero invece più portati per la dialettica e le attività
intellettuali,
amanti della poesia, della musica, degli svaghi, meno combattivi ma più astuti
dei loro
connazionali settentrionali, mangiatori di riso e di pietanze sofisticate.
Si
tratta ovviamente di generalizzazioni, e bisogna anche ricordare che oltre alle
differenze tra Nord e
Sud sono presenti in Cina innumerevoli altre differenze regionali, ma pure è
utile tener
presente che i cinesi non sono affatto una popolazione dalle caratteristiche
unitarie, ma
sono i variegati abitanti di un paese grande quasi come un continente.
3. Nel segno della continuità: storia, storiografia e istituzioni
La civiltà cinese ha origini antichissime e vanta una delle più antiche e ricche
tradizioni
storiografiche al mondo.
Un dato rilevante che differenzia la civiltà cinese da ogni altra civiltà è la
sua apparente
continuità.
Tale concetto va considerato sotto due aspetti differenti:
- il concreto manifestarsi del processo storico;
- la coscienza soggettiva della continuità, che trova espressione nella più
vasta produzione storiografica prodotta da una civiltà in tempi premoderni.
Il concreto manifestarsi del processo storico in Cina ha visto nel 221 a.C.,
dopo secoli e
secoli di antichissime dinastie il cui dominio era essenzialmente
simbolico-religioso (la
più antica di queste dinastie comparve nel III millennio a.C.), la ‘Prima
unificazione’ dinastica
a opera di Qin Shi Huangdi (letteralmente, Primo
Imperatore della dinastia Qin).
Il Primo Imperatore, noto ai profani soprattutto per l’impressionante esercito
di terracotta
costituito da migliaia di statue di dimensioni umane poste a difesa del suo
mausoleo, fu
un personaggio tirannico e crudele, ma pure riuscì a dare per la prima volta un
carattere
unitario e statuale alla Cina. La sua opera unificatrice segnò così
profondamente la civiltà
cinese che, nonostante le numerose epoche di divisione che la Cina ha conosciuto
lungo
i secoli, dopo il regno del Primo Imperatore si è sempre mantenuta l’idea di una
cultura
e di un impero unitari, tanto che, durante i periodi di divisione, l’idea della
possibile restaurazione
di un impero unitario era sempre viva.
La produzione storiografica cinese si esprime in modo esemplare nelle Storie
dinastiche.
Questa produzione ha ulteriormente rafforzato la coscienza della continuità
della civiltà
cinese.
Cosa sono le Storie dinastiche e quale è stato il loro significato?
Fin dalla più remota antichità, la scrittura storica è stata uno dei generi
fondamentali
della civiltà cinese.
Due dei Cinque Classici (il Classico dei documenti e gli
Annali delle
primavere e autunni) erano testi di storia.
La storia era narrazione degli
eventi, ma tali
eventi erano trasformati, interpretati sotto una luce morale.
In tal modo il
testo storico
diveniva anche un modello con cui l’azione reale dei governanti, e soprattutto
dei funzionari, i letterati che avrebbero dovuto guidare i governanti, si sarebbe
sempre dovuta
confrontare.
La tradizione delle Storie dinastiche ha inizio con lo Hanshu (Storia della
dinastia Han
[Anteriore]4), di Ban Gu, autore vissuto durante la successiva dinastia degli
Han Posteriori
(25-220). L’autore si rifà comunque a un modello precedente: lo Shiji (Memorie
di uno
storico) di Sima Qian (145-87 a.C.), che fornì lo schema a questo genere
storiografico,
anche se il suo testo non era ancora una storia dinastica.
A partire dallo Hanshu, ogni dinastia ha scritto la storia della dinastia che
l’ha preceduta,
servendosi del materiale raccolto dagli storici e gli annalisti della dinastia
decaduta.
Questa usanza ha portato, ovviamente, a rafforzare l’idea di una
continuità della tradizione
imperiale, tanto che, anche durante i periodi di divisione dell’impero, era in
genere una
delle tante dinastie regnanti a far redigere la storia dinastica del periodo
precedente. In
tal modo tale dinastia si autoinvestiva del ruolo di dinastia legittima erede
dell’impero.
Dallo Hanshu in poi sono state compilate venticinque storie dinastiche,
realizzando una
imponente opera storiografica che ha rappresentato un potente strumento di
unificazione
culturale, un continuo appello all’ideale dell’impero unitario nei periodi di
divisione e, nei
periodi di decadenza, un richiamo alla grandezza della Cina.
Il senso della continuità storica dell’impero cinese è stato rafforzato anche
dal trasmettersi,
nel corso dei secoli, di alcuni concetti fondamentali, quali
la funzione del sovrano e
il concetto di Stato.
Pur mutando le dinastie regnanti, infatti, la funzione dei
sovrani, che
rimaneva immutata almeno nei suoi aspetti simbolici fondamentali, assicurava una
continuità tra le varie dinastie.
Il sovrano, che aveva per nascita un rapporto
privilegiato col
Cielo (era detto infatti Figlio del Cielo, Tianzi),
aveva il compito di
assicurare l’equilibrio
tra società umana e ordine naturale.
A rafforzare tale ruolo del sovrano, si andò formando il concetto di ‘Mandato
celeste’
(Tianming): secondo questa dottrina era il Cielo, suprema espressione
dell’ordine cosmico, che conferiva il
mandato di governare la società umana a
una famiglia e che lo
trasferiva ad altre famiglie, quando quella che lo aveva ricevuto
precedentemente se ne
fosse mostrata indegna.
Nel togliere il Mandato, il Cielo agiva attraverso
intermediari, che
potevano essere di volta in volta identificati
in vari modi: a volte si trattava
di un’altra famiglia aristocratica, a volte poteva trattarsi dello stesso
popolo.
Per questo nel corso della
storia cinese più di una rivolta popolare ha rovesciato una dinastia.
Se quindi da un lato l’imperatore, nella Cina tradizionale, era geneticamente
legato al
Cielo, il suo potere era però in qualche modo limitato dal suo stesso ruolo di
autorità suprema e dalle sue responsabilità.
In quanto garante dell’ordine umano
e cosmico, punto
di contatto tra Cielo, Terra e Uomo, il sovrano era tenuto a un
comportamento
moralmente
corretto, a rispettare i riti e a tenere presenti i bisogni del popolo.
Calamità
naturali, carestie, miseria erano segni possibili della indegnità morale di un
sovrano, e legittimavano
un suo eventuale allontanamento dal potere, anche tramite azioni di forza.
La dottrina del ‘Mandato Celeste’ è antichissima: la troviamo formulata già
nel più antico testo di storia a noi
pervenuto, il Classico dei documenti, compilato tra l’XI e il VII sec. a.C., con
aggiunte fino al III sec.
Legato a tale concetto sacrale del sovrano è il concetto di Stato nella Cina
tradizionale; lo
Stato è espressione terrena dell’armonia cosmica: come le costellazioni ruotano
intorno alla Stella Polare, così tutte le strutture dello Stato, i ministri, i
funzionari di ogni livello,
agiscono illuminati dalla luce del sovrano che dà loro il giusto orientamento,
in un sistema di gerarchie che si immagina sempre armonioso.
Benché possa apparire strano, tale concezione dello Stato si è trasmessa fino ai
nostri giorni: il governo della Repubblica Popolare Cinese, pur essendo di stampo socialista, si
considera il fulcro
dell’ordine politico, sociale e anche morale del paese. Indicativo di tale
concezione è
lo slogan lanciato dai vertici del Partito Comunista cinese a partire dal 2004,
con cui
si afferma la volontà di costruire una ‘società armoniosa socialista’ per
affrontare i più
scottanti problemi legati alla crescita economica del paese (disparità sociali,
corruzione
dilagante, ma anche la diffusione di egoismo e lassismo).
Il concetto di
‘armonia’ è un
richiamo esplicito agli ideali politici della tradizione cinese.
Il sistema di scrittura cinese è uno dei più antichi al mondo, insieme ai
caratteri cuneiformi dei sumeri e ai geroglifici egiziani; l’unicità del cinese,
rispetto a questi altri sistemi,
è rappresentata dal fatto che i caratteri cinesi sono la più antica forma di
scrittura tuttora
in uso.
Un altro aspetto che rende la scrittura cinese particolarmente originale e di
difficile apprendimento è costituito
dalla sua natura morfografica: è cioè una
scrittura che non indica
sistematicamente il suono delle parole,
ma che utilizza una serie di segni che
rappresentano graficamente i morfemi della lingua, e cioè le sue unità minime
dotate di significato.
In pratica, mentre grazie all’invenzione delle lettere le lingue dotate di un
sistema di scrittura alfabetico possono rappresentare
le decine di migliaia di
parole che ne costituiscono
il vocabolario con due o tre decine di segni,
teoricamente nel cinese dovremmo
avere un
numero di caratteri equivalente al numero delle parole della lingua.
Anche se
questo, per
necessità legate all’economia intrinseca e alla funzionalità della lingua, non
avviene, il
numero dei caratteri del cinese moderno è comunque molto elevato.
La maggiore
difficoltà nello studio della scrittura cinese è quindi rappresentata dalla
necessità di
memorizzare un elevato numero di segni. Mentre nelle lingue dotate
di alfabeto i bambini in pochi
mesi apprendono un sistema di segni che consente loro di leggere qualsiasi
parola della
loro lingua, pur senza comprenderne necessariamente il significato, i bambini
cinesi sono
costretti a studiare ogni giorno nuovi segni per lunghi anni, durante tutto il
percorso delle
scuole elementari e delle medie inferiori.
A causa delle enormi sacche di analfabetismo provocate dalle difficoltà di
apprendimento
della scrittura cinese, nella prima metà del XX secolo in Cina molte voci si
sono levate
a favore dell’adozione di un sistema alfabetico, suscitando numerosi e vivaci
dibattiti.
Infine, ha prevalso una soluzione di compromesso che ha portato, nei primi anni
dopo la
fondazione della Repubblica Popolare Cinese, all’adozione di un certo numero di caratteri semplificati,
ma che
ha sostanzialmente mantenuto intatto il sistema di scrittura tradizionale.
Come mai un sistema talmente complesso è rimasto funzionale e vitale fino ai
nostri giorni?
Esso, indubbiamente, deve presentare dei vantaggi che ne
compensino la difficoltà di
apprendimento. Innanzi tutto, rimane il sistema di scrittura più adatto a una
lingua dotata
di un numero relativamente limitato di sillabe, caratteristica propria del
cinese. In cinese
abbiamo infatti un numero estremamente elevato di omofoni (parole dallo stesso
suono e
dal significato diverso): basta sfogliare casualmente un dizionario di cinese
ordinato
foneticamente per incrociare omofoni quasi ad ogni pagina. Per ovviare
a questo problema,
il sistema di scrittura morfografico, che rappresenta i significati e non la
pronuncia delle
parole, rimane il sistema di scrittura più adatto.
Un altro vantaggio offerto da questo sistema di scrittura è rappresentato dal
fatto che i
suoi segni possono essere letti in vari modi, esattamente come le cifre arabe,
che sono
entrate nell’uso in decine di paesi e che possono essere pronunciate in modi
diversi,
mantenendo il loro significato. Così, in un paese come la Cina,
caratterizzato da innumerevoli
e profonde differenze dialettali, la scrittura morfografica, che può essere
letta con diverse
pronunce ma che rimane comprensibile a tutti, rappresenta un fondamentale canale
di
comunicazione comune.
Da non sottovalutare sono anche i fattori culturali che tendono a conservare
l’uso del
sistema di scrittura ideografico in Cina. La scrittura, con tutta la difficoltà
data dal lungo
percorso necessario per arrivare a dominarla, possiede una grande autorevolezza:
per secoli,
se non per millenni, il potere è stato associato in Cina con la
capacità di leggere e
scrivere, in quanto la cultura era un requisito necessario per accedere alle
cariche governative.
Fare studiare i propri figli era il primo obiettivo per
qualsiasi cinese che superasse
la soglia della povertà, in quanto accedere alla scrittura significava accedere
alla possibilità
di realizzare grandi ambizioni. Inoltre, il legame con la
grande tradizione letteraria
secolare costituisce un fattore determinante nell’opposizione al passaggio a un
sistema di
scrittura alfabetico: perdere la capacità di leggere i caratteri significa
creare una frattura
con la propria cultura e la propria civiltà letteraria. Infine, i caratteri
cinesi hanno avuto,
nel corso dei secoli, un richiamo culturale talmente potente da essere adottati
in paesi
culturalmente e linguisticamente assai diversi dalla Cina, come la Corea, il
Giappone e il
Vietnam, contribuendo così a costituire una grande area culturale dove si è
verificato un
continuo scambio di saperi.
Un aspetto fondamentale che caratterizza il sentire della civiltà cinese
differenziandola
profondamente da quella occidentale è la mancanza, nella cultura cinese,
dell’idea di
creazione e della figura di un Dio creatore. Il mondo, il cosmo, sono sempre
esistiti e
sempre esisteranno, trasformandosi senza posa. Anche nella tradizione cinese
esistono
dei miti cosmogonici che narrano della nascita del mondo, ma manca in essi
l’idea che
il mondo sia nato da una volontà divina superiore. Manca quindi la concezione
cristiana
per cui l’umanità segue uno sviluppo secondo un preciso disegno divino, che
parte dal
peccato originale per giungere al giudizio universale. Nel sentire cinese, lo
sviluppo non
è mai lineare, ma circolare, ciclico. Allo stesso modo, manca nel mondo cinese
anche
la divisione, tipica del mondo cristiano-occidentale, tra mondo terrestre,
associato con
tutto ciò che è transitorio, imperfetto, corporeo e peccaminoso, e mondo
celeste, sfera
dell’eternità, della perfezione, dello spirituale, del sacro.
La sfera materiale e quella spirituale nella cultura cinese vivono in un
rapporto di continuità:
non si escludono l’un l’altra né possono essere
giudicate negativa la prima e positiva
la seconda. Non esiste un Dio creatore, ma esiste un pantheon di divinità che
abitano un
mondo non dissimile né migliore da quello abitato dagli umani e governato da
leggi assai
simili a quelle in vigore nel mondo umano.
Nella concezione cinese manca una volontà divina superiore che guidi il creato:
in tutto
ciò che esiste è insito un principio ordinatore, il Dao, la ‘Via’, che indica il
percorso delle
cose secondo la loro inclinazione naturale, il moto naturale dell’universo. Tale
Via non è
rivelata da un Dio o da profeti, perché è, appunto, principio insito nelle cose.
La Via è
alla portata di tutti, tutti ne facciamo esperienza tutti i giorni, basta che ci
poniamo in un
atteggiamento di ascolto verso la realtà.
Non esistono quindi testi rivelati, come avviene per la Bibbia e il Corano:
tutti i testi,
pure i principali Classici o i testi fondanti del taoismo e del confucianesimo,
sono opera
dell’uomo.
La Via non ha una connotazione morale: semplicemente, quando si devia dalla Via
si cade
in un percorso innaturale, e quindi deviato. Non esiste, come nell’Occidente
cristiano, la
contrapposizione tra Dio, forza del bene, e il diavolo, forza del male.
Il male
per la cultura cinese è conseguenza di una deviazione dalla Via, e tale
deviazione avviene a causa
dell’ignoranza che ci induce a sbagliare direzione.
Nella Cina tradizionale hanno per secoli coesistito (e coesistono tuttora) tre
principali dottrine: si parla infatti di Sanjiao (le Tre dottrine). Esse sono il
confucianesimo, il taoismo e
il buddhismo.
Sebbene le prime due non siano nate come dottrine religiose, col
passare
dei secoli hanno assunto, almeno parzialmente, diversi connotati tipici delle
religioni, per
cui spesso si traduce Sanjiao come le ‘Tre religioni’. Confucianesimo e taoismo
sono dottrine autoctone, nate in Cina, mentre il buddhismo nacque in India
intorno al VI sec. a.C.
e si diffuse in Cina a partire dai primi secoli della nostra era, caso unico di
una dottrina
non cinese in grado di radicarsi sul suolo cinese, esercitando un influsso
profondissimo
sugli sviluppi successivi della società, del pensiero e della struttura morale
cinesi.
Le Tre dottrine, pur caratterizzate da profonde differenze, hanno sempre
convissuto; in
alcuni momenti l’una ha preso il sopravvento sulle altre, in altri periodi vi
furono delle
persecuzioni (in particolare contro il buddhismo) o dei momenti di forte
tensione, ma
non esistette in Cina nulla di simile alle guerre di religione che
insanguinarono per secoli
l’Europa: mai una religione organizzata, mai nessuna chiesa, infatti, ha assunto
in Cina
un potere politico determinante, come è avvenuto in Occidente.
Le concezioni di individuo e società in Cina si sono formate nella remota
antichità e si
sono trasmesse fino all’epoca moderna mantenendo praticamente immutati i
lineamenti
fondamentali.
Il mondo cinese è senza dubbio ancora segnato dall’impronta datagli da Confucio
(551-479 a.C.). La figura di Confucio può apparirci paradossale: a differenza di
altri
grandi pensatori dell’antichità, Confucio non è né un filosofo che ha elaborato
un sistema
di pensiero, né il fondatore di una religione; il suo pensiero appare anzi al
primo impatto
piuttosto banale.
La sua eccezionalità dipende dal fatto “che ha formato l’uomo
cinese
per più di due millenni ma, ancor più, dal fatto che ha proposto per la prima
volta una
concezione etica dell’uomo nella sua integralità ed universalità”-
Confucio, quindi, non elaborò un sistema di pensiero compiuto, ma piuttosto si
propose
di insegnare agli uomini come diventare veramente uomini, nella prospettiva
della costruzione
di una società equilibrata che contribuisse all’armonia del
mondo e del cosmo.
Per Confucio l’uomo assume valore in quanto in rapporto con gli altri uomini:
nel suo
pensiero è centrale la virtù dell’umanità
- la sollecitudine che gli
uomini hanno gli
uni per gli altri dato che vivono 'insieme’
- Lo stesso carattere, composto
dal radicale ‘persona' a cui è affiancato, esprime chiaramente il
concetto
per cui un uomo è veramente tale solo se in relazione con altri uomini.
Confucio non propone quindi la costruzione di un individuo, ma di una persona
che deve
avere una funzione sociale, che per essere davvero umana deve sapere vivere in
relazione
agli altri.
Tale idea della persona vista in una prospettiva sociale, collettiva, e mai
individuale, è
rafforzata dalla assoluta preminenza della famiglia e delle esigenze familiari
su quelle
individuali.
Anche la centralità della famiglia è un momento importantissimo del
pensiero confuciano;
modello in piccolo dello stato e dell’intero cosmo, la
famiglia è alla base
stessa dell’ordine cosmico: relazioni familiari ordinate porteranno a un paese
ordinato e a
un mondo ordinato e armonioso.
Così le gerarchie familiari, e quindi quelle sociali, vanno rigidamente
osservate: i ruoli di
padre, madre, fratelli maggiori e minori, ecc., sono molto ben definiti, e la
virtù della pietà filiale
è una delle virtù fondamentali dell’uomo cinese.
Contravvenire ai principi della
pietà filiale significa contravvenire a regole sacre, macchiarsi di empietà.
Da ciò deriva che anche nella Cina attuale la famiglia resti il fulcro della
società.
Le decisioni, anche nel caso degli adulti, e anche quando coinvolgono
la sfera più intima, sono
sovente prese dal gruppo familiare (e in particolare dai genitori anziani che
mantengono la
loro autorità fino alla morte). Le relazioni sociali e lavorative sono fondate
spesso su base
familiare o per lo meno personale. Per trovare un buon posto, occorre
generalmente avere
delle buone guanxi (‘relazioni’), cioè avere un rapporto di parentela o di
amicizia (considerata un’estensione del rapporto di parentela) diretto o
indiretto con il datore di lavoro.
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