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Ascesa e caduta di Michail Gorbačëv.
Quando Michail Gorbačëv assunse la carica di segretario generale del Pcus
(11 marzo 1985), l’Urss versava già in una grave crisi. Questa crisi era
iniziata molti anni prima, con la destituzione di Chruščëv nel 1964.
Per legittimare il suo potere e per allentare la morsa nei confronti della
popolazione, stremata da anni di privazioni legate alle tremende
vicissitudini dei piani quinquennali e a una guerra devastante, Chruščëv
aveva ridimensionato l’ipertrofia repressiva staliniana attenuando la
censura politica il che gli ingraziò momentaneamente il mondo della cultura.
Puntò pure a una riforma dell’economia sovietica. Ma l’improvvisazione,
rivelatasi anche nella conduzione dilettantesca della politica estera, e
l’instabilità in cui precipitò tutta l’Europa orientale a partire dal 1953
concorse alla sua caduta, frutto di una congiura ordita ai suoi danni
all’interno del Presidium.
Seguì un ventennio di relativa tranquillità interna, favorita dalla crisi
internazionale del 1973 che aveva determinato l’aumento dei
prezzi
del petrolio e del gas, proprio all’indomani della scoperta di enormi
giacimenti in Siberia. Se da un lato ciò portò a un discreto aumento del
livello di benessere della popolazione, dall’altro favorì però – di fatto –
una sorta di inerzia perché l’aumento dei proventi diminuì la percezione
dell’urgenza delle riforme e scoraggiò, pertanto, nuovi investimenti che
avrebbero permesso all’Unione Sovietica di mantenersi al passo col mondo
occidentale.
I risultati della conferenza di Helsinki (1975) avevano rappresentato un
indubbio successo per la diplomazia sovietica perché riconoscevano
formalmente l’assetto dell’Europa uscito dalla Seconda guerra mondiale. La
crisi istituzionale prodotta dal Watergate e la sconfitta degli Stati Uniti
in Vietnam avevano tratto in inganno il leader sovietico Leonid Brežnev che,
al XXV Congresso del Pcus (febbraio 1976), si sentì autorizzato a lanciarsi
in imprudenti dichiarazioni sulla fine ineluttabile del capitalismo.
Successo che però si trasformò presto in un boomerang poiché,
in cambio del riconoscimento ufficiale del controllo sovietico sui paesi
dell’Europa orientale, Mosca si era impegnata a garantire i diritti
dell’uomo, obbligo che non rispettò favorendo così il coagulo d’un dissenso
che trovava una sponda sicura in Occidente.
E se la parità strategica negli
armamenti veniva vantata a piena voce dal governo sovietico, esorbitante –
come ebbe a dire più tardi Gorbačëv – fu il prezzo pagato da Mosca che aveva
dovuto sottrarre investimenti importanti da altri settori.
Il declino fu accentuato anche da una onnipresente e dominante gerontocrazia
– l’età media del Politbjuro nel 1980 superava i 70 anni – e dalle assai
precarie condizioni di salute di Brežnev (segretario generale del Pcus dal
1964 al 1982) incapace di seguire, con la necessaria attenzione, gli affari
di stato e di ostacolare gli intrecci che si venivano creando tra malavita e
poteri locali, soprattutto nelle zone periferiche dell’impero sovietico.
Né
Jurij Andropov (1982-1984), intellettualmente vivace ma minato da un tumore,
né tantomeno Konstantin Černenko (1984-1985), caricatura gerontocratica e
ultima espressione della vecchia burocrazia sovietica, che gli succedettero,
furono in grado di invertire una deriva generale segnata da un’endemica
crisi agricola e dall’impossibilità di mantenere una politica degli
armamenti divenuta sempre più dispendiosa a causa delle scelte operate dai
presidenti americani.
Consapevole di ciò, appena giunto al potere, Gorbačëv intraprese un
rinnovamento radicale all’interno del partito: nel Politbjuro entrarono
uomini più giovani e due terzi dei segretari provinciali furono sostituiti.
Lanciò anche una battaglia contro l’alcolismo – gli valse l’epiteto di
“segretario minerale” – che ebbe però come conseguenze disastrose la
distruzione dei vitigni in Moldavia e una consistente perdita di entrate
indispensabili per le riforme economiche.
Il riformismo di Gorbačëv puntò al raggiungimento di due obiettivi che si
tradussero anche in altrettante parole d’ordine: glasnost’ e perestrojka.
Con la prima, il neosegretario puntò alla trasparenza nella vita del partito
mediante l’abolizione di fatto della censura, guadagnandosi di colpo una
popolarità fortissima presso gli intellettuali del suo paese e,
complessivamente, a livello mondiale. Solo l’incidente nucleare alla
centrale di Černobyl dell’aprile 1986, che aveva mostrato come permanesse
l’ossessivo rispetto della segretezza da parte delle autorità sovietiche,
aveva segnato una momentanea battuta d’arresto nel flirt tra Gorbačëv e
l’opinione pubblica internazionale. Seguirono misure conseguenti, come la
scarcerazione dei detenuti politici: clamoroso fu il richiamo di Sacharov
dal confino a Gor’kij.
Si aprì anche un dibattito a tutto campo per riempire
– come ebbe a dichiarare il segretario generale – “le pagine bianche” della
storia patria. La Rivoluzione d’Ottobre e la sua legittimità storica,
l’opera di Lenin, l’essenza del socialismo, il ruolo di Stalin nei piani
quinquennali e nella Seconda guerra mondiale vennero messi in discussione.
La seconda grande riforma, la perestrojka (ristrutturazione), nasceva da una
lucida consapevolezza dell’inefficienza in cui versava tutta l’economia
sovietica che fece pronunciare al neosegretario la fatidica frase «così non
è più possibile continuare!».
L’operazione, pur nel rispetto formale
dell’eredità di Lenin, contemplava idee innovative che puntavano
all’inserimento di sostanziali elementi di mercato e alla modernizzazione
tecnologica. I prezzi sarebbero diventati fluttuanti in modo da rispecchiare
i costi di produzione reali e i desideri dei consumatori. Era concessa la
possibilità di dar vita a cooperative e ai contadini si offriva
l’opportunità di prendere in affitto appezzamenti delle fattorie collettive.
Si parlò di “socialismo di mercato” che consisteva nell’esigere
competitività tra le aziende e bilanci in ordine.
I risultati furono
deludenti all’inizio e disastrosi più tardi. Si generò una forte inflazione
e, in assenza degli obblighi che la politica di piano prevedeva, ci fu un
calo nella produzione e disordini nella distribuzione.
Sulle ceneri
dell’economia di piano non si era venuta sviluppando un’economia di mercato
ma si scatenò il caos.
Il crollo dello statalismo significò il crollo
dell’intera società sovietica, poiché al di fuori di esso non esisteva
nulla.
In
realtà la perestrojka si era mossa su un piano di totale indeterminatezza.
Nel tentativo di pilotare la riforma, Gorbačëv aveva seguito uno schema
molto ideologico e irrealistico, con l’illusione di poter immaginare una
terza via tra capitalismo ed economia pianificata. Inoltre, a guidare la
riforma, non poteva essere certo la burocrazia del partito contraria ai
cambiamenti. Se gli intellettuali comunisti, almeno agli inizi, erano
entusiasti dei cambiamenti, altrettanto non si può certo dire dei burocrati
che vedevano minacciata la loro rendita di posizione.
Senza contare chi
sinceramente temeva per le sorti del socialismo, identificato con l’ordine
esistente nell’Unione Sovietica. E sviluppando un’acuta osservazione di
Aleksandr Zinov’ev, l’Unione Sovietica, anche se con contraddizioni forti, è
stata una superpotenza mondiale che ha tenuto testa agli Stati Uniti.
Soltanto a posteriori, con una impostazione teleologica del giorno dopo,
affermiamo che esistevano tutti i presupposti per il suo crollo.
In realtà l’Urss avrebbe potuto sopravvivere a lungo.
Sul piano della politica estera, Gorbačëv mostrò i suoi lati brillanti e
innovativi, ma anche ingenuità politiche.
Il quadro internazionale che il neosegretario aveva ereditato era quanto mai
pesante. In un clima di euforia e di onnipotenza, Brežnev aveva fatto
collocare, sui confini occidentali dell’Urss, gli SS20, una nuova
generazione di missili più precisi e potenti dei precedenti.
Operazione
assai imprudente, perché gli Stati Uniti avevano risposto con
l’installazione dei Pershing dando vita a un grandioso e oltremodo
dispendioso sistema di armamenti che prese il nome di “guerre stellari”, e
l’Unione Sovietica, che soffocava sotto il fardello degli armamenti, non era
assolutamente in grado di sostenere uno sforzo economico altrettanto grande.
Gorbačëv pertanto optò per un cambiamento radicale della politica estera del
suo paese. Inaugurò nuovi rapporti con la Cina, ordinando il ritiro
unilaterale di alcune divisioni dal confine cinese e chiudendo così un
contrasto durato trent’anni. Propose poi al XXVII Congresso del Pcus
(febbraio 1986) una graduale soppressione delle armi nucleari. Dette vita a
una politica estera assai dinamica che si concretizzò in ripetuti incontri con
Reagan, Gonzales, la Thatcher, Kohl coronati dall’accordo finale del giugno
1990 che contemplava una diminuzione degli arsenali chimici e dei missili
intercontinentali.
In parallelo, sviluppò una riedizione della vecchia
“coesistenza pacifica” che puntava all’intesa con l’Occidente attorno a
obiettivi condivisi di sicurezza globale. Il nuovo clima politico
internazionale fece sì che si rappacificassero aree “calde” come l’Angola e
la Cambogia, rispettivamente abbandonate dalle truppe cubane e vietnamite.
Anche la guerra contro l’Iraq, capitanata dagli Stati Uniti (1991), trovò un
assenso, anche se con qualche critica, da parte sovietica.
L’interdipendenza
politica ed economica mondiale avrebbe dovuto scoraggiare il ricorso alle
armi.
Si trattava di un linguaggio che si discostava dalla tradizione
leninista perché i “valori umani condivisi” facevano aggio sull’impostazione
classista.
Posizioni, queste, molto generose che riscossero larghi successi
nell’opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti ma che non commossero i
loro governi assai avari nel concedere quegli aiuti finanziari di cui Mosca
aveva assoluta necessità, nonostante i consistenti risparmi in spese per
armamenti di cui poterono beneficiare, dopo la fine della minaccia militare
sovietica. D’altronde, dopo tanto parlare dell’ “impero del male”, gli Usa
non potevano essere cavalieri. La “vittoria” sul grande nemico storico era
un balsamo per l’amor proprio degli Stati Uniti che avevano da poco perso
l’Iran.
Quanto all’Europa orientale, già in occasione dei funerali di Černenko, il
neosegretario del Pcus aveva avvertito i capi di quei paesi che l’Urss non
sarebbe più intervenuta nei loro affari interni.
E ovunque andasse, nelle
sue visite nei paesi dell’Europa orientale, calorose erano le accoglienze
delle folle che, applaudendolo per le sue aperture libertarie, intendevano
così contestare i rispettivi dirigenti. Gli fu da più parti rimproverato di
avere abbandonato al suo destino la Germania dell’Est – per i russi segno
tangibile della vittoria sulla Germania nazista e per i comunisti antemurale
e baluardo per la salvezza di tutto il mondo comunista – senza contropartita
alcuna da parte di Washington. Accusa che non tiene conto del fatto che
l’Urss non era in grado di dettare condizioni.
Come scrisse Saverio Vertone,
Gorbačëv aveva
voluto usare la bancarotta come strumento politico per ricevere aiuti ma
l’Occidente non aveva abboccato.
Tra i fattori che accelerarono la caduta del regime comunista, determinante fu l’introduzione del sistema elettorale “libero”
concepito all’interno di un costruendo stato di diritto, mai esistito in
Russia. L’ipotesi iniziale di Gorbačëv contemplava una democrazia
all’interno del partito unico, in ossequio alla vecchia democrazia
bolscevica (anch’essa mai esistita) che evocava la formula rivoluzionaria
leninista “tutto il potere ai Soviet”.
Il progetto gli scoppiò tra le mani:
se all’inizio poteva apparire limitato e modesto, confrontato con gli
standard occidentali, ebbe poi caratteristiche così dirompenti che gli
causarono la sorda opposizione di vasti settori del partito, soprattutto a
livello periferico, che dettero vita anche a casi di sabotaggio
nell’attuazione della riforma economica.
Nel 1990 si giunse a una vera
elezione democratica e alla contemporanea abolizione dell’articolo 6 della
Costituzione del 1977, che prevedeva il monopolio del potere del Pcus, e a
ottobre dello stesso anno fu legalizzata la formazione di nuovi partiti
politici e di sindacati liberi.
Al XXVIII congresso (l’ultimo, del luglio
1990) furono presentate piattaforme alternative a quella di Gorbačëv che
proponeva la trasformazione del Pcus in un partito socialdemocratico.
Ma
ormai questi progetti erano quotidianamente scavalcati dagli avvenimenti:
l’opinione pubblica era interessata a una presa di distanza definitiva e
totale dal socialismo comunque inteso. La condanna investiva non solo lo
stalinismo ma anche il leninismo e, in qualche misura, la stessa Rivoluzione
d’Ottobre.
Il segretario generale subiva i rimbrotti dei conservatori che non volevano
cedere il potere e i vantaggi che ne derivavano, e dei radicali che di
socialismo non volevano più sentir parlare: se al centro egli riusciva
ancora a vincere le sue battaglie piegando di volta in volta destra e
sinistra ai suoi voleri, era la periferia politica e geografica che non
rispondeva più, quando non passava decisamente al sabotaggio.
Per operare una riforma capace di risanare l’economia, sarebbe stata
necessaria una guida ferma, sicura negli obiettivi, autorevole e
autoritaria. Liquidare il monopolio di potere del Pcus significò invece
eliminare l’encefalo nel governo del sistema nervoso con sostituzioni
pasticciate e inventate a tavolino.
Gorbačëv, per quanto rielaborasse le sue teorie, dimostrò di essere un
pensatore disorganico.
La sua conoscenza della storia della Russia era
quanto mai frammentaria e avrebbe dovuto capire che i sistemi democratici
non solo non possono essere esportati ma neppure importati. La democrazia
occidentale può esprimere le proprie qualità unicamente nell’ambiente in cui
si è formata, cioè all’interno della società occidentale. In un ambiente
diverso si trasforma nel suo contrario: in uno strumento tirannico.
La
situazione andò sempre più verso un graduale peggioramento con l’acuirsi del
conflitto politico fra coloro che auspicavano riforme graduali e coloro che
invece, come Boris El’cin, optavano per cambiamenti radicali e per
l’instaurazione immediata d’un sistema capitalistico in Unione Sovietica. Il
caos economico, una forte inflazione, la difficile reperibilità di merci di
prima necessità, i consistenti ritardi nei pagamenti dei salari
determinarono un’acuta instabilità sociale che favorì, a sua volta, le
tendenze separatiste in alcune repubbliche dell’Urss.
Di fronte
all’incalzare degli avvenimenti, Gorbačëv puntò a un rafforzamento
dell’esecutivo inserendovi dei conservatori, e alla salvaguardia
dell’integrità dell’Unione Sovietica indicendo un referendum (marzo 1991)
che confermò la volontà unitaria dei cittadini sovietici, eccezion fatta per
le popolazioni dei paesi baltici, della Georgia e della Moldavia che
disertarono la consultazione elettorale per proclamare poi l’indipendenza
poco dopo. Il momentaneo successo di Gorbačëv – alla carica di segretario
aveva aggiunto quella di presidente dell’Urss, eletto dal congresso dei
deputati del popolo nel maggio 1989 – doveva però fare i conti con El’cin,
che il mese successivo proclamò la sovranità della Russia determinando una
forte crisi istituzionale.
Le spinte secessionistiche probabilmente non
sarebbero state sufficienti a provocare lo sfascio dell’Unione se non fosse
montata una forte politica nazionalista proprio nella principale fra tutte
le repubbliche, quella russa, e se a capo di questa non ci fosse stato un
uomo di fortissima ambizione: Boris El’cin.
È questo il quadro in cui venne a maturarsi il golpe dell’agosto 1991 nel
quale personaggi importanti come Krjučkov, Pavlov, Jazov, Janaev – proprio
coloro che Gorbačëv aveva collocato ai posti di comando per cercare di
tenere sotto controllo la situazione – tentarono di costringere Gorbačëv a
firmare lo stato d’assedio.
Il complotto, ordito il 19 agosto, fallì nel
giro di cinque giorni, causa il secco rifiuto di Gorbačëv e la passività, se
non l’ostilità, del partito comunista, dell’esercito e di ampi settori dello
stesso Kgb (di cui Krjučkov era capo).
Ma a determinare il fallimento del
golpe fu anche la presenza, già consolidata, da un contropotere rappresentato
dalla repubblica russa di cui El’cin era presidente.
Se il tentativo di
restaurazione fu scongiurato, segnò tuttavia le sorti di Gorbačëv che subì,
nel dicembre successivo, il colpo di grazia dalla decisione dei presidenti
di Russia, Bielorussa e Ucraina riuniti a Minsk di sciogliere l’Unione
Sovietica.
Al suo posto fu creata la Confederazione degli Stati
Indipendenti, effimera istituzione esistente solo sulla carta. Il partito
comunista, considerato comunque in qualche modo oggettivamente
corresponsabile del tentato colpo di stato, fu sciolto d’autorità da un
editto di El’cin.
Assai pertinente, per spiegare la sconfitta di Gorbačëv, è una bella pagina
del Principe di Machiavelli che così recita: «come non è cosa più difficile
a trattare, né più dubbia a riuscire né più pericolosa a maneggiare, che
farsi capo a introdurre nuovi ordini. Chi lo fa – aggiunge il segretario
fiorentino – ha per nemici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene e
ha tepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbero bene».
Mentre i nemici si muovono decisamente contro le innovazioni, gli altri le
difendono debolmente, «in modo che insieme con loro si periclita».
Tre
secoli dopo il Tocqueville, riflettendo sulla rivoluzione francese,
scriveva: «Non è sempre con l’andare di male in peggio che si precipita
nella rivoluzione. Per lo più, un popolo che ha sopportato senza lagnarsi, e
quasi senza avvertirle, le leggi più opprimenti, le respinge violentemente
non appena il loro peso si allevia» (Tocqueville, L’antico Regime e la
Rivoluzione). Pertanto l’allentamento dell’oppressione da parte di Gorbačëv
avrebbe dato spazio, se non alla rivoluzione in senso stretto, all’anarchia
di comportamenti collettivi provocando il crollo del sistema comunista e
ponendo fine alla sua carriera politica.
Proprio su questo tema, quello della caduta dell’impero esterno e di quello
interno, l’opinione pubblica russa, con considerazioni tra loro talvolta
poco coerenti, ha attaccato il segretario generale.
Soprattutto la perdita
della Germania orientale, considerata quasi un trofeo della vittoria
dell’Armata Rossa nella “grande guerra patriottica” (1941-1945) contro il
mortale nemico nazista. I primi a soffrirne, ovviamente, furono gli
ufficiali dell’Armata Rossa, precipitati in una forte crisi di identità.
La Russia di El’cin: un paese allo sfasci
El’cin, personaggio che sapeva unire cipiglio autoritario e atteggiamento
plebeo – aveva riscosso un notevole successo popolare: celeberrime le sue
incursioni nei Grandi Magazzini (Gum) di Mosca per stigmatizzare la
sciatteria organizzativa responsabile dell’endemica carenza di merci –, era
riuscito a mettere insieme una coalizione oltremodo eterogenea.
Guidava la
lotta contro i privilegi della nomenklatura e galvanizzava le correnti
radicali: sia politiche, contro ogni residuo di censura, sia economiche, a
favore di un liberismo totale capace di smantellare definitivamente tutti i
residui socialisti del paese. Il suo autoritarismo all’inizio trovava
consenso vuoi tra i funzionari sgomenti per la confusione crescente, vuoi
tra gli intellettuali che invocavano un nuovo dirigismo per riformare
l’economia. La carta vincente fu però il suo forte spirito nazionalista che
utilizzò per distruggere l’Urss e mettere fuori gioco Gorbačëv, l’unica
autorità ancora capace di bloccargli l’ascesa politica.
L’avvento al potere di El’cin coincise con l’apice della crisi economica e
sociale del paese.
Nella primavera del 1991 ci fu una terribile penuria di
merci. Cominciavano a circolare i dollari come mezzo di pagamento e
l’autorità dello stato si andava dissolvendo, così come andava deperendo
l’industria russa. La produzione industriale nel lustro successivo alla
caduta dell’Urss diminuì di più della metà.
Ciò creava una sorta di
effetto-domino su tante comunità locali perché le strutture sociali erano
finanziate dall’apparato industriale: la chiusura di numerose fabbriche,
oltre a produrre disoccupazione, significò pertanto, in molti casi,
l’indebolimento sia dell’apparato educativo con l’aumento
dell’analfabetismo, sia delle strutture ospedaliere con l’innalzamento della
mortalità infantile e diminuzione della durata media della vita. Per la
prima volta nella storia della Russia moderna si è assistito a una
contrazione demografica preoccupante che persiste ancor oggi, nonostante il
massiccio afflusso di russi da altre repubbliche un tempo parte dell’Unione.
La ricerca scientifica, orgoglio della società sovietica, prese a
languire per mancanza di fondi, tanto che numerosi furono gli scienziati che
sono emigrati in Occidente. Le numerose riviste politico-letterarie che
avevano infiammato gli animi giungendo, come il “Novyi mir”, a vendere sino
a tre milioni di copie, stentavano a sopravvivere.
Da allora fino ai giorni
nostri s’è aperta una forbice tra il livello di estrema ricchezza di alcuni
sottili strati della società e la grande maggioranza della popolazione che
vive nel disagio economico.
Il tutto accadeva nel clima convulso in cui dominava la parola d’ordine che
auspicava l’accesso rapido della Russia al capitalismo per recuperare il
tempo perduto e permettere il riallineamento nei confronti del mondo
occidentale.
Il passaggio dall’economia di piano a quella di mercato, che con Gorbačëv
aveva conosciuto un andamento lento e tortuoso,sì da suscitare
l’insofferenza di chi voleva procedere senza indugi, avveniva ora in modo
burrascoso e senza regole con El’cin, suscitando sconquassi economici e
sociali di enorme portata.
Lo sviluppo febbrile e selvaggio che si scatenò a partire dal 1992 prese le
mosse dalla cosiddetta “economia-ombra” che si era sviluppata
sotterraneamente già nell’era brežneviana. Ma, invece di agire sulla sfera
produttiva, si manifestò nel campo dei servizi e dell’intermediazione
commerciale e finanziaria assumendo caratteristiche meramente speculative.
Scarso l’afflusso del capitale straniero perché altrettanto scarse erano le
garanzie in questa giungla senza regole. Anziché assistere alla nascita di
nuove fabbriche, il cittadino di Mosca verificava la proliferazione di un
nugolo di chioschi nelle strade della capitale.
La fuga di capitali
all’estero non faceva che completare il quadro desolante. A farla da
padrone, come attestavano senza infingimenti le rare inchieste parlamentari,
erano i racket criminali che esigevano il “pizzo” tanto dai proprietari dei
piccoli chioschi quanto dalle direzioni delle grandi imprese industriali. La
privatizzazione dei mezzi di produzione un tempo statali avveniva in modo
caotico, scollegata da ogni logica di crescita produttiva o di risanamento
finanziario. L’apparente paradosso fu che proprio i dirigenti del partito,
un tempo contrari alle riforme, si convertirono alla privatizzazione
ricavandone vantaggi immensi. Erano loro a utilizzare le giuste conoscenze
per mettere insieme i capitali necessari per acquistare, a prezzi
stracciati, pezzi dell’industria di stato.
Lo sperpero della proprietà
statale fu denunciato dalla grande stampa occidentale («Le Nouvel
Observateur» e «The Economist») che ridicolizzava anche i luoghi comuni
ideologici che accompagnavano la grande rapina: il capitalismo alle origini
ha sempre caratteristiche criminali, il capitalismo si può sviluppare solo
in mancanza di regole…
Il malcontento sociale era forte perché le aspettative che il ritorno al
capitalismo aveva alimentato erano state deluse. L’opinione pubblica era
disorientata: non immaginava certo che la distruzione dell’ordine sociale
esistente avrebbe condotto il paese a un primitivo stato precomunista,
anziché al livello dei paesi occidentali. El’cin riuscì a incanalare il
grande malcontento verso i suoi primi ministri, opportunamente sacrificati
per dare soddisfazione alla popolazione esasperata. Fu in grado di
sopravvivere perché, a differenza di Gorbačëv che voleva conciliare
democrazia e socialismo, economia di piano e libera iniziativa, non aveva
modelli da difendere. Lasciò che tutto si movesse a briglia sciolta senza
obiettivi prestabiliti, se non quello di un generico sviluppo del
capitalismo.
Rischiò forte nel 1993, ma più per l’opposizione parlamentare
che per quella popolare.
La contrapposizione tra potere esecutivo e potere
legislativo si risolse con il bombardamento del Parlamento e con la morte di
un numero imprecisato di oppositori, che comunque assommò a qualche
centinaio. Un referendum opportunamente indetto mise fine allo scontro
inaugurando una repubblica presidenziale con forti caratteristiche
autoritarie. D’altronde, la privatizzazione aveva generato sconquassi
economici e una parcellizzazione sociale nella quale era difficile per le
masse individuare un responsabile.
Nel 1999 El’cin giunse al capolinea. Inseguito da vicende giudiziarie e
minato nella salute, si dimise il 31 dicembre.
Fu una mossa a sorpresa per
non dar tempo agli oppositori.
Aveva già preparato la successione. Gli
subentrò ad interim, come stabilisce la Costituzione, il primo ministro. Era
Vladimir Putin, che sarebbe stato confermato nelle elezioni del 25 marzo
2000.
Uno “zar” stanco e malato individuava un successore poco
identificabile col passato e capace di salvaguardarlo da probabili inchieste
giudiziarie sugli ultimi dieci anni.
Putin e il ritorno della potenza russa
Sotto il governo di Putin tutto il quadro politico e sociale è andato via
via normalizzandosi. Nel corso dei suoi due mandati, tra il 2000 e il 2008,
ha avviato un piano ambizioso di trasformazione del paese. È stata
realizzata la revisione del catasto e sono stati varati un sistema di
sicurezza sociale e i codici del lavoro (2001) e agrario (2002). Abbassate
le imposte, ci fu anche un discreto rientro di capitali.
Una legge
sull’insolvenza e sulla bancarotta era stata già promulgata da El’cin nel
marzo 1998.
Furono anche portate a termine le trattative per l’entrata della
Russia nell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto). Migliorò pure
la produzione dei beni di consumo, diminuendone pertanto le importazioni
dall’estero.
Al di là dei dati economici non sempre veritieri – la Russia non ha perduto
il “vizietto” dei tempi sovietici di alterare le statistiche –
si può dire
che dal 1999 a oggi l’aumento annuo della produzione industriale oscilla tra
il 5 e il 10%: dati invidiabili per qualsiasi governante dei paesi
industriali avanzati. Quanto ai redditi reali della popolazione, hanno
conosciuto incrementi annui addirittura superiori, intorno al 15-17%.
La
povertà, che negli anni Novanta riguardava fino i due terzi dei russi, è
rimasta circoscritta a pochi gruppi sociali e territoriali. Inoltre, i conti
pubblici sono stati messi in ordine. Putin ha saldato in anticipo tutti i
debiti, compresi quelli ereditati dall’Unione Sovietica. Forte di questi
risultati conseguiti, il premier si era posto l’ambiziosissimo obiettivo di
raddoppiare il Pil entro la fine del 2010.
Il raggiungimento dell’obiettivo
restava subordinato alla diversificazione dell’economia, eccessivamente legata
agli andamenti del settore energetico. In effetti, la Russia è stata baciata
dalla dea bendata. Il petrolio, venduto al prezzo di 35 dollari al barile
nel 2000, ha preso a salire sino a 150 dollari per poi muoversi su valori
altalenanti, ma sempre superiori a quelli della fine del secolo scorso. La
Russia è assai ricca di oro, platino, diamanti, nichel, titanio, minerali
ferrosi e non ferrosi, ma il tentativo di creare industrie manifatturiere di
piccole e medie dimensioni ha ottenuto successi modesti.
Appena giunto al potere, Putin si rese conto che per sollevare la Russia
dall’abisso in cui era sprofondata era necessario stabilire regole di
comportamento collettivo. Soprattutto intuì la necessità di piegare la casta
di oligarchi riottosi che avevano fatto fortuna alla corte di El’cin
danneggiando però l’economia nel suo complesso e creando enormi sacche di
povertà. In gran parte ex dirigenti di organismi pubblici e di fabbriche,
che gestivano consistenti flussi finanziari, si erano trasformati in
padroni, in oligarchi, appunto.
Ciascuno aveva privatizzato ciò che in
qualche modo era in suo possesso. Černomyrdin, ministro del gas, assurse
alla carica di amministratore delegato del Gazprom, la più grande impresa
del gas russa divenuta centro di potere oltre che fonte di enormi ricchezze.
Già nel 1991, quando era ancora un’industria di stato, estraeva più di 800
miliardi di metri cubi di gas; la sua rete di gasdotti toccava 160.000
chilometri, con 350 stazioni di compressione.
Putin decise di radunare i maggiori industriali per mettere le carte in
tavola.
S’impegnava a sorvolare sui numerosi intrallazzi che avevano
accompagnato le privatizzazioni degli anni ’90, ma a due condizioni: gli
industriali avrebbero dovuto astenersi da qualsiasi attività politica e,
facendo rientrare i capitali depositati all’estero, effettuare consistenti
investimenti produttivi in Russia.
Quasi tutti capirono l’antifona. Michail Chodorkovskij che, per la grande ricchezza – era proprietario del gigante
petrolifero Yukos – e per i ramificati e forti rapporti internazionali, si
sentiva intoccabile, credette di poter far la fronda al presidente.
Capì,
troppo tardi, che la musica era cambiata.
In un’intervista al «Times» pochi
mesi prima dell’arresto, così descrisse la Russia di Putin: «Teoricamente
esiste una stampa libera, ma in pratica esiste l’autocensura.
Teoricamente
esistono i tribunali, ma in pratica i tribunali adottano decisioni imposte
dall’alto». Fu arrestato poco dopo, nell’ottobre 2003, per un’evasione
fiscale quantificata in 28 miliardi di dollari. Processato due anni più
tardi, fu condannato a una lunga pena detentiva, per giunta in una lontana
località nel cuore della Siberia. La durezza esemplare della condanna doveva
fungere da monito preciso e chiaro a tutti coloro che nutrivano la velleità
di contrastare il “nuovo zar”. Alla vigilia della scarcerazione, nel 2009,
sono scattate nuove accuse per far partire nuovi processi e ulteriori
condanne. La sua compagnia fu fatta a pezzi e in parte riacquistata dalla
azienda petrolifera statale Rosneft, controllata da Igor Sechin, uomo del
Cremlino. L’operazione godette del plauso di larghi settori dell’opinione
pubblica che la interpretarono come giusta riparazione alla politica di
rapina condotta dai neocapitalisti postcomunisti a danno della popolazione.
La campagna contro gli oligarchi portò come conseguenza la “conquista”, da
parte del potere, di televisioni e giornali che a essi facevano capo. Alcuni
giornalisti furono arrestati con l’accusa di violazione del segreto di
stato. Altri subirono una sorte ben peggiore, andando a ingrossare le fila
delle vittime di omicidi politici. Sono più di un centinaio i giornalisti
ammazzati, e ben raramente i responsabili sono stati individuati. I nomi più
celebri sono quelli della Politkovskaja e della Baburova, uccisa insieme
all’avvocato Marchelov, difensore di molti di coloro che avevano patito
violenze da parte delle truppe russe in Cecenia.
Subito dopo l’inizio del suo secondo mandato, Putin chiarì ulteriormente i
suoi obiettivi: togliere ogni spazio politico agli industriali detentori di
enormi ricchezze o legati all’Occidente; ridare spazio allo stato in
economia, a partire dai settori strategici.
C’è da dire che sia le elezioni del 2000, sia quelle del 2004, per Putin
furono una passeggiata. Il neocomunista Zjuganov, che con scarsa sfortuna
aveva già sfidato più volte El’cin, non raccolse che un 30% di voti. Da quel
momento Zjuganov e Žirinovskij furono confinati a elemento folkloristico del
parlamento russo.
Putin era consapevole che per ridare forza e autorevolezza
allo stato russo era necessario agire anche sulla stessa struttura
istituzionale. Già nell’ottobre 1999, quando rivestiva ancora la carica di
premier, prese ad annullare i trattati bilaterali che le varie unità
federali avevano strappato al potere centrale. Dopo di che, raggruppò tutte
le repubbliche e le regioni della federazione russa in sette grandi
“distretti federali” (Estremo-Orientale, Siberiano, Urali, Volga,
Nord-Occidentale, Centrale, Meridionale), nominandone egli stesso i
governatori sopraordinati alle varie autorità delle entità locali. Come ai
tempi di Ivan il Terribile, i boiari locali erano stati ricondotti
all’obbedienza. Il successo di Putin consiste nell’aver ridato tranquillità
a una popolazione scioccata e logorata da vent’anni di cambiamenti continui
e di grande portata, anche psicologica.
Il suo ruolo è stato quello di
personificare la ritrovata grandezza della Russia ricostruendo un ponte
verso i tempi sovietici e restituendo prestigio al paese, anche se ciò
significò punire con metodi spesso illegali gli oligarchi, limitare la
libertà dei mezzi di comunicazione, piegare le pratiche elettorali al
proprio tornaconto. È stato un elemento costante, nella storia russa, questa
oscillazione continua tra un’esigenza di democrazia, spesso degenerata in
anarchia, e un’insopprimibile volontà di ordine destinato anch’esso a
degenerare in autocrazia o dispotismo.
D’altronde, un paese in cui non
esistono ancora un tessuto industriale cospicuo e diffuso, né una classe
stabilizzata di imprenditori e mercanti, ma che possiede enormi risorse
naturali, ha favorito l’affermarsi di un potere centrale autorevole e capace
di gestire queste risorse.
Non poteva mancare, in questo gioco di restaurazione, un forte avvicinamento
alla chiesa ortodossa.
Già una legge del ’97 definì “tradizionali” per la
Russia soltanto le confessioni cristiano-ortodossa, islamica, ebraica e
buddista. Se ne deduce che la discriminazione era mirata verso la religione
cattolica e le confessioni protestanti. La chiesa ortodossa si è sentita da
sempre padrona di casa e ha visto con ostilità i tentativi di proselitismo
del clero cattolico. S’è opposta con decisione alla visita del papa Giovanni
Paolo II in terra russa, visita da lungo tempo desiderata.
Putin ha voluto curare l’immagine di fedele devoto facendosi riprendere
dalla televisione in feste e cerimonie religiose. L’alleanza fra trono e
altare ha favorito entrambi. D’altronde, Putin e l’allora patriarca Aleksej
condividevano nazionalismo e ostilità nei confronti dell’Occidente.
Questa
“comunione” si è manifestata esplicitamente nel febbraio 2008 alla vigilia
delle elezioni presidenziali che hanno incoronato Medvedev, quando il
patriarca ha ringraziato alla televisione il presidente uscente per «aver
servito disinteressatamente il paese». Grazie a Putin, si è moltiplicato il
numero delle chiese e delle pubblicazioni religiose.
La debolezza dell’attuale politica estera russa è anche la conseguenza della
condizione dell’esercito nel suo complesso. A partire dagli ultimi anni di
Gorbačëv, la quota di bilancio statale destinata alla difesa è andata via
via diminuendo.
Nel 1988, l’allora ministro degli esteri sovietico Eduard Ševardnadze dichiarò che il bilancio della difesa ammontava addirittura al
19% del Pil mentre attualmente, dopo gli incrementi dell’ultimo biennio, gli
investimenti nel settore si sono attestati all’1%, ben al di sotto degli
Stati Uniti che impegnano il 6,4%. Ciò significa che le spese militari russe
nel 2006 erano di 23 miliardi di dollari, ben al di sotto quindi degli Stati
Uniti che stanziarono 670 miliardi di dollari (compresi i costi della guerra
in Iraq) .
Sergej Ivanov, presidente della commissione
governativa per il complesso militar-industriale, ha parlato di una spesa
equivalente a 300 miliardi di dollari nel periodo 2007-2015, meno della metà
della somma impegnata dagli Stati Uniti nel solo 2006.
Dopo un periodo di
sbandamento, durante il quale si potevano incontrare per la strada militari
questuanti per via di stipendi arretrati non percepiti, Putin ha finalmente
proposto una strategia di riassesto del complesso militare. Il programma
prevede diciassette missili balistici intercontinentali, quattro apparati
spaziali a uso militare e altrettanti vettori per metterli in orbita.
Per
l’aeronautica militare è prevista una squadriglia di bombardieri a lungo
raggio, sei squadriglie di aerei e sei di elicotteri da guerra, sette
battaglioni di carri armati e tredici battaglioni motorizzati. Inoltre,
nuovi pozzi di lancio di missili e rampe per missili mobili. Inizierà pure
la produzione di sommergibili atomici dotati di dodici-sedici missili
strategici (“Bulava-30”). La marina militare riceverà 31 nuove navi da
guerra e saranno ammodernati 47 battaglioni carristi, 97 motorizzati e 50 da
sbarco. Come si vede, un impegno militare e finanziario notevole ma
assolutamente inadeguato a colmare il divario con gli Stati Uniti.
Sul piano della politica estera, Putin, sin dall’inizio, ha tentato di
riproporre una Russia che, anche se non su un piano di parità come l’Urss,
fosse l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Il primo incontro
l’ebbe con Clinton. Poi i rapporti tra i due stati si deteriorarono a causa
dell’intenzione di G. W. Bush di installare in Polonia e nella repubblica
ceca lo scudo antimissilistico. Inaccettabili le giustificazioni del governo
americano secondo il quale le proprie scelte militari punterebbero al
contenimento della politica iraniana, ritenuta aggressiva nei confronti
dell’Occidente.
La Russia ha risposto accennando al rinnovo dei propri armamenti che
potrebbero minacciare l’Europa occidentale.
Ma se Putin appare talvolta
aggressivo nella forma dei suoi interventi, è tuttavia moderato e realista
nelle sue scelte politiche, consapevole dei grossi limiti in cui si dibatte la federazione russa.
Le critiche della stampa occidentale nei confronti di Mosca si muovono
soprattutto sul tema del mancato rispetto dei diritti umani sia nei
confronti degli oppositori interni, sia verso la popolazione cecena, vittima
di interventi brutali da parte dell’esercito russo. Più prudenti degli
organi di stampa sono i governi europei che temono di compromettere i
rapporti commerciali, soprattutto per quel che concerne l’approvvigionamento
di gas, dal momento che un’alternativa alla Russia, qualora possibile, si
rivelerebbe più costosa e rischiosa. (Ma anche per la Russia, le cui riserve
di gas superano il 25% del totale mondiale, non sarebbe conveniente cambiare
i suoi clienti). C’è inoltre difficoltà a mostrare un atteggiamento univoco,
dal momento che dal 2004 sono entrati nell’Unione alcuni paesi dell’Europa
orientale e le tre repubbliche baltiche ex sovietiche che manifestano uno
spirito di rivalsa antirusso molto forte per l’oppressione patita per mezzo
secolo.
La Russia obietta che l’Occidente non ha le carte in regola per muovere
critiche: l’esistenza di Guantanamo, dove vengono ristretti combattenti
islamici senza processo, ne sarebbe la prova. Quanto all’intervento militare
occidentale in Iraq, il governo russo contesta la possibilità di esportare
la democrazia.
Nei confronti dei paesi già facenti parte dell’Urss, Putin coltiva la
speranza di poterli riavvicinare. Con la Bielorussia si sono avviate
trattative di unione che tuttavia non hanno ancora sortito effetti per via
della permanenza di qualche contrasto. Con l’Ucraina si è aperto un
contenzioso legato alla volontà moscovita di esigere da Kiev il pagamento
del gas ai normali prezzi di mercato internazionale.
Con il ricatto
economico la Russia conta, se non di trattenere questo stato nella propria
sfera di influenza politica, almeno di evitarne l’ingresso nell’Alleanza
Atlantica. Mosca gioca sull’esistenza di una forte presenza in questa
repubblica di russi e di ucraini russofoni, contrari alla “rivoluzione
arancione” dalle caratteristiche fortemente antirusse e filooccidentali. Nei
confronti delle cinque repubbliche asiatiche, un tempo facenti parte
dell’Unione Sovietica, i rapporti segnano un miglioramento.
Dopo un loro
avvicinamento agli Stati Uniti – Uzbekistan e Kirghizistan hanno concesso
basi aeree agli Stati Uniti per la guerra in Afghanistan anche col
beneplacito di Mosca che voleva in cambio mano libera in Cecenia – ora una
sorta di forza centripeta sta calamitando questi stati verso una nuova
“grande alleanza” con la Russia.
Anche con la Cina e l’India, i due paesi emergenti nell’economia mondiale,
Mosca sta intrattenendo rapporti politici e relazioni economiche per
controbilanciare la presenza statunitense nel Sud-est asiatico.
La Cina si
sta dotando di armamenti moderni ed è la Russia a fornirglieli.
Anche in
occasione dell’intervento bellico americano in Iraq, Russia e Cina, che
fanno parte entrambe del Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno impedito che
questo organismo ne legittimasse l’aggressione, in ciò confortate anche dal
voto francese.
Quanto alle prospettive per il futuro, permangono gravi
squilibri demografici ai confini tra una Cina superpopolata e la Siberia
russa che ha un densità demografica assai scarsa. Già oggi esiste il
problema di una massiccia immigrazione clandestina di cinesi nell’Estremo
Oriente russo.
Sempre per potere segnare una propria presenza a livello
mondiale, la Russia si è proposta, insieme alla Cina, come intermediaria tra
la Corea del Nord e gli Stati Uniti, seriamente preoccupati per le minacce
atomiche della piccola repubblica asiatica.
Analogo discorso si può fare per
l’Iran. Mosca mantiene una politica di forti investimenti in questo paese,
ma soprattutto collabora alla costruzione della centrale nucleare di Busher,
mettendo in forte allarme Stati Uniti e Israele che paventano un uso
militare dell’impianto. A coronare i rapporti con Teheran ha pensato Putin
con una visita ufficiale nell’ottobre 2007. Un fatto nuovo che ha messo alla prova la tenuta
della Federazione Russa è stata la guerra-lampo dell’agosto 2008 contro la Georgia.
Oggetto del contendere, lo status dell’Ossezia del Sud e quello dell’Abchazija,
resesi autonome da Tbilisi ma rivendicate dalla Georgia che ne ha tentato la
riconquista contando sull’appoggio di Washington.
Probabilmente Saakashvili,
il presidente georgiano, è caduto in una trappola perché la Russia non
aspettava che l’occasione per affermare il suo ruolo di grande potenza
regionale e per riscattarsi dall’era elciniana in cui Mosca sembrava
asservita alla politica americana.
Da rilevare che è la prima volta,
nell’epoca postsovietica, che le truppe russe hanno violato frontiere
internazionalmente riconosciute e hanno ingaggiato uno scontro armato in
territorio straniero.
L’evento bellico è da collocare all’interno di un’operazione che tende a
ricostituire il quadro unitario della Russia dopo la caduta dell’Unione
Sovietica con uno stato che controlla l’economia, il potere che si concentra
in poche mani, il dissenso posto sotto controllo con il varo di leggi
straordinarie, la stampa tenuta sotto scacco da una legislazione che
contempla il reato di alto tradimento per le notizie sgradite al regime.
Non
è il ritorno all’era comunista, come qualcuno, orfano di vecchi ed errati
schemi interpretativi, vorrebbe farci credere.
È la Russia che rientra
nell’alveo della sua storia millenaria, la Russia nata come stato
patrimoniale in cui il principe non solo comanda ma è proprietario di cose e
persone.
Il “patto” che ha tenuto legata a Putin la popolazione russa è basato sul
vecchio assunto, ormai consolidato in epoca sovietica, che il governo ha il
dovere di garantire le condizioni minime della quotidianità, cioè il sistema
sanitario, l’educazione scolastica, il lavoro.
Se sono rispettate, i diritti
dell’uomo, lo stato di diritto, la libertà di stampa possono passare in
secondo piano. Questo perché lo stato russo è uno stato padrone, sin dai
tempi di Ivan il Terribile, e i russi hanno introiettato questo principio
subendolo passivamente, salvo poi reagire violentemente in certi frangenti
particolari.
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