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Publio Elvio Pertinace 1º agosto 126 – 28 marzo 193.
Suo padre era stato un generale
di Marco Aurelio, mentre sua madre era figlia di un Senatore. Era dunque di
famiglia altolocata, in più era rispettato per i suoi costumi integri, per
l'abilità e l'onestà.
Sotto Marco Aurelio era caduto
in disgrazia per calunnie nei suoi confronti, ma
il genero dell'imperatore, Claudio Pompeiano, scoprì l'inganno e lo riabilitò
facendolo Senatore.
Acclamato imperatore da popolo e Senato, ben lieti che l'odiato Commodo fosse
morto. Nel 193, furono offerte dal Senato la carica di Augusta alla moglie e
quella di Cesare al figlio: Pertinace rifiutò, affermando che il figlio avrebbe
dovuto meritarsi la carica.
A chi gli fece notare che si affiancava di uomini ministri di Commodo, Pertinace
rispose: - Voi siete Console giovane, e non sapete cosa sia la necessità di
ubbidire. Costoro hanno obbedito fin qui loro malgrado a Commodo. Subito che han
potuto, han fatto conoscere la loro buona volontà. -
Il che dà l'idea di quanto tollerante e retto fosse il vecchio Pertinace.
Pertinace venne, però, assassinato dalla guardia pretoriana dopo soli ottantatrè giorni di impero. Fu un peccato perché in quel breve tempo Pertinace
aveva già messo mano a diversi provvedimenti:
•dovendo subito pagare pretoriani e soldati mise in vendita tutti i lussi di
Commodo, dagli schiavi alle suppellettili, alle carrozze,
alle armi preziose, alle concubine. Con ciò che avanzò
regalò al popolo cento denarii a testa.
•tagliò le spese inutili del governo,
•onorò i debiti accumulati dai suoi predecessori,
•mise all'asta i costosissimi oggetti collezionati da Commodo,
•costrinse chi si era ingiustamente arricchito durante Commodo a riconsegnare i
beni.
Per quanto applaudito da popolo e Senato, suscitò invece l'odio dei Pretoriani,
ormai indisciplinati e arroganti, che temevano per il loro potere e i loro privilegi.
Uccisero dunque Pertinace, perché i Pretoriani erano ormai i padroni di Roma, e
decisero di mettere vergognosamente l'impero all'asta. Chi avesse offerto di più
sarebbe stato eletto Imperatore.
Si presentarono Flavio Sulpiciano, suocero di Pertinace e prefetto di Roma, e
Didio Giuliano, Senatore. Vinse quest'ultimo, con una offerta di 6250 dracme per
Pretoriano contro le 5000 offerte da Sulpiciano.
Giuliano fu così Imperatore, ma Senato, popolo e legioni erano indignati e in
vena di rivolta.
I Pretoriani stessi non amavano questo Imperatore che aveva
comprato il regno. Intanto accorse dalla frontiera il generale Settimio Severo,
ex generale di Pertinace, con un gruppo di soldati scelti.
Giuliano tentò la difesa, mandò ambasciatori per placare Severo, e insieme
sicari per ucciderlo.
I Pretoriani erano un tempo i soldati migliori, ma con l'inattività s'erano
infiacchiti. Per questo temevano i legionari, molto più esperti e forti di loro,
così, di fronte all'offerta di amnistia in cambio di Giuliano e degli assassini
di Pertinace, consegnarono, dopo soli sessantasei giorni di regno, Giuliano al
Senato che lo condannò a morte e lo fece decapitare nelle terme del palazzo
imperiale nel 193 d.C..
Settimio Severo - 11 aprile 146 - 4 febbraio 211 -
Settimio Severo era nato a Leptis in Africa da ricca famiglia equestre; aveva
studiato greco e latino, perfezionandosi ad Atene e a Roma dove aveva studiato
il diritto.
Lanciato in politica, nel 172 era stato Questore in Sardegna; poi in Africa fu
legato del proconsole, e infine a Roma divenne Tribuno e poi Pretore.
Nel 179 ottenne il governo della Siria.
Nel
187 fu nominato governatore della Gallia Lugdunense, una brillante carriera a
cui seguì un brillante matrimonio con una donna siriana, Giulia Domna, di grande
bellezza e grande intelligenza.
L'unione dette un figlio, di nome Bassiano, il
futuro imperatore Caracalla.
Dopo l'uccisione di Giuliano, una commissione di cento senatori andò incontro al
nuovo imperatore ad Interamna (Terni), sulla via Flaminia. Ricevuti gli omaggi
della Curia, Settimio Severo fece mettere a morte gli assassini di Pertinace,
poi ordinò che i Pretoriani, in abito di parata e senz'armi, gli andassero
incontro e proseguì per Roma.
Quando però i Pretoriani si trovarono davanti a
Settimio, vennero circondati dalle legioni e seppero che il loro corpo era stato
sciolto con proibizione, pena la morte, di risiedere a meno di cento miglia da
Roma.
Settimio Severo entrò a Roma con la bellissima moglie, i Senatori e le truppe,
tra l'acclamazione popolare. Punì i seguaci di Giuliano, fece l'apoteosi di
Pertinace, e annunciò che avrebbe in suo onore innalzato un tempio; giurò che
non avrebbe condannato a morte nessun Senatore, e che anzi avrebbe ristabilito
l'autorità del Senato.
Intanto l'Egitto e l'Asia volevano Pescennio imperatore e molti principi
dell'Asia gli avevano offerto il loro aiuto. Severo disponeva di nove legioni e
numerose truppe ausiliarie ed era stimato dai soldati. Pescennio intanto aveva
occupato Bisanzio e assediata Perinto. Severo, dopo aver prese per cautela in
ostaggio le famiglie dei Pretori e dei legati d'Asia, mosse col suo esercito
verso l'Oriente.
L'esercito di Pescennio, lasciato l'assedio nel 193, si ritirò oltre il Bosforo
e l'Ellesponto, per impedire alle truppe romane il passaggio in Asia.
Settimio Severo, temendo che in sua assenza Clodio Albino tentasse un colpo di
mano, rimase a Perinto ed affidò il comando a Tiberio Claudio Candido,
comandante delle legioni illiriche. Questi, anziché affrontare il nemico tra
Bosforo ed Ellesponto, sbarcò in Frigia, dove venne attaccato dal proconsole
d'Asia Asellio Emiliano, che però perse la battaglia e la vita. I superstiti si
ritirarono e si unirono all'esercito di Pescennio Nigro che avanzava verso
Nicea. Anche qui le truppe di Severo ebbero la meglio. L'esercito vinto riparò
in Armenia e parte sul Tauro.
Nel 194 le guerre ricominciarono.
Pescennio Nigro con un numeroso esercito si
era accampato nella pianura di Isso, e qui le truppe di Severo, sebbene
inferiori di numero, lo sconfissero, lasciando sul campo ventimila morti nemici.
Pescennio Nigro in fuga fu catturato ed ucciso: il suo capo su una picca fu
inviato a Severo.
I seguaci di Nigro fuggirono arruolandosi tra i Parti, altri
si sottomisero a Severo, che passò in Asia.
Antiochia fu messa sotto la
giurisdizione di Laodicea e i suoi più importanti cittadini uccisi, Neapoli di
Palestina perdette il diritto italico, altre città parteggianti per Nigro furono
condannate a pagare forti somme. Laodicea e Tiro per premio divennero colonie
romane. La moglie e i figli di Nigro vennero esiliati, altri ebbero la confisca
totale o parziale dei beni, gli ufficiali di Pescennio furono perdonati.
Bisanzio però non aveva ceduto neppure alla morte di Pescennio, e Settimio
Severo l'aveva fatta assediare.
C'erano ancora rivolte e Severo temeva ancora Clodio Albino.
Per legittimare il suo governo e prendersi il patrimonio di Commodo, nel 195 si
dichiarò per postuma adozione figlio di Marco Aurelio, poi mosse battaglia e
Nisibi ed altre città divennero colonie romane, forti guarnigioni furono poste
nei territori tra l'Eufrate e il Tigri e Severo prese il titolo di Adiabenico.
Si trovava nella Mesopotamia quando nel 196 Bisanzio si arrese per fame. Dopo la
capitolazione, i magistrati e quanti avevano impugnate le armi furono uccisi, la
città fu saccheggiata e messa sotto la giurisdizione di Perinto.
L'Oriente era
vinto.
Clodio Albino con l'appoggio di parte del Senato aveva assunto il titolo di
Augusto e con tre legioni era passato in Gallia formando un esercito di
centocinquantamila soldati.
Settimio Severo ordinò al Prefetto del pretorio di Roma di occupare i valichi
delle Alpi, dal Senato fece dichiarare nemico pubblico Clodio Albino, poi lasciò
l'Asia e mosse verso il nemico.
Suo figlio Bassiano fu nominato Cesare e prese
il nome di Marco Aurelio Antonino, il futuro Caracalla.
Poiché il generale di
Britannia, Clodio Albino, riportò diverse vittorie, il Senato passò dalla sua
parte battendo moneta con l'immagine di Albino.
Ma Severo guidò personalmente
all'attacco le sue legioni coi suoi migliori generali, nell'aspra battaglia fu
colpito e cadde da cavallo, ma alla fine ebbe la meglio. Clodio Albino si
suicidò, Settimio Severo gli fece tagliare il capo e lo spedì al Senato.
Le città favorevoli ad Albino versarono fortissimi tributi, i capi puniti con la
morte, altri esiliati e i loro beni confiscati.
Settimio Severo fece ritorno a Roma.
Riunito il Senato, dichiarò che preferiva
la severità di Silla, di Mario e di Augusto alla clemenza di Pompeo e di Cesare,
tessè l'elogio di Commodo rimproverando il Senato per la damnatio memoriae,
ordinò che gli venisse fatta l'apoteosi e gli fossero erette statue. Poi fece
processare sessantaquattro senatori per aver parteggiato per Albino.
Trentacinque vennero assolti e ventinove giustiziati: fra questi il Sulpiciano
che aveva gareggiato con Giuliano per comprarsi l'impero, e Narcisso, che aveva
soffocato Commodo, fu dato in pasto ai leoni.
Intanto Vologese IV, re dei Parti aveva invaso la Mesopotamia e assediata Nisibi.
Settimio Severo ricostituì i Pretoriani che gli custodissero il trono,
aggiungendo barbari agli italici. Poi partì e nel 197 giunse in Mesopotamia.
Alla testa del suo esercito, costeggiando l'Eufrate, Settimio giunse a
Babilonia; le città partiche caddero, la capitale venne saccheggiata con
centomila prigionieri. L'imperatore però non inseguì Vologeso e prese la via del
ritorno.
Non riuscì a punire Atra, favorevole a Pescennio Nigro, che seppe
respingerlo.
Intanto la Palestina si era ribellata. L'esercito romano la sconfisse e Settimio
Severo pubblicò un editto contro gli Ebrei e i Cristiani. Non si conosce
l'entità di queste persecuzioni, anche perchè Tertulliano, il grande apologista
del Cristianesimo, non venne toccato, testimoniando invece la clemenza di
Severo.
Severo concluse con Vologeso la pace che rese la Mesopotamia romana, poi
passò in Egitto facendo restaurare il colosso di Memnone e venne iniziato al
culto di Serapide. Nel 202 Severo fece l'ingresso trionfale a Roma, dove
ricompensò il popolo della fedeltà con feste ed elargizioni. Il figlio Bassiano
celebrò con grande solennità il trionfo giudaico, poi sposò Plautilla, figlia
del Prefetto del pretorio.
Nel 203 Severo commemorò il decimo anniversario del suo impero e il Senato
decretò che ai piedi del Campidoglio fosse innalzato un arco trionfale
all'imperatore «per avere ricostituito lo stato ed ingrandito l'impero del
popolo romano». Si tratta del più antico arco a Roma, conservato, con colonne
libere anziché addossate ai piloni. Un grande capolavoro di stile e bassorilievi
che ancor oggi svetta nel Foro romano.
La sua corte fu un cenacolo di dotti, intorno alla bellissima imperatrice
Giulia Domna, con la sorella Giulia Mesa e alle nipoti Soemide e Mammea.
Le riforme -
•Tolse al Senato quasi tutta l'autorità nell'amministrazione dello stato.
•Concentrò in un gruppo di amici dell'imperatore, scelti fra cavalieri, militari
e giuristi, l'amministrazione dello stato.
•Ai funzionari, scelti tra i cavalieri, affidò il censo e le cariche riservate
prima ai senatori, e ai cavalieri più meritevoli concesse i titoli onorifici di
vir egregius e di vir perfectissimus.
•Tolse ai governatori delle province il diritto di istituire imposte e per
controllarne l'opera, furono posti legati imperiali di controllo.
•Aumentò la paga ai legionari, il cosiddetto soldo.
•Concesse ai legionari il diritto di contrarre matrimoni legittimi.
•Accordò ai migliori legionari, come premio, il passaggio a Pretori.
•Dispensò i veterani da ogni pubblico incarico.
•Concesse regali ricchissimi ai generali; agli ufficiali in congedo conferì
titoli onorifici e impieghi civili; ai centurioni aprì la via agli uffici
superiori nella carriera militare e in quella amministrativa.
Settimio, non fidandosi dei Pretoriani, condusse in Italia la II° Legione partica
e l'acquartierò ad Albano, vicino Roma. Per la prima volta il Prefetto del
Pretorio, pur rimanendo in carica, fu ammesso nel Senato, diventò capo dei
funzionari imperiali con giurisdizione penale per tutto il territorio a cento
miglia da Roma.
Il primo prefetto del pretorio che entrò a far parte della Curia fu Fulvio
Plauziano, un africano che aveva combattuto a lungo e fedelmente per Severo.
Plauziano divenne più potente dello stesso imperatore ed accumulò misteriosamente
ricchezze favolose, facendo inoltre sposare la figlia Plautilla a Bassiano (Caracalla).
Ma i due coniugi non andarono d'accordo, rovinando i rapporti tra Bassiano (Caracalla) e Plauziano, che a sua volta non era ben visto da Giulia Domna.
Spinti da Bassiano, tre centurioni dichiararono a Settimio che Plauziano aveva
loro dato l'ordine di uccidere l'imperatore. Questi chiamò il prefetto a
scolparsi: ma nel gabinetto imperiale era anche Bassiano, il quale, mentre il
suocero protestava la sua innocenza, gli si scagliò addosso con la spada in
pugno. Il padre lo trattenne, ma Bassiano gridò ad un littore di uccidere il
prefetto e questi cadde trafitto.
Gli amici del morto caddero in disgrazia e la stessa sorte subì la famiglia:
Plautilla e il fratello Plauto vennero relegati a Lipari.
Opere Pubbliche -
•costruì i templi di Bacco e di Ercole.
•Ultimò le terme severiane iniziate da Domiziano
•Fece riparare il portico di Ottavia, il Panteon e i templi di Saturno e di
Vespasiano.
Restaurò il bilancio dello stato, anche adulterando le monete. Col patrimonio di
Commodo e il ricavato delle confische, accrebbe soprattutto le sue finanze
private.
Nel 208 Settimio partì per la Britannia, contro Meati e Caledoni. Questi
evitarono di misurarsi in campo aperto coi Romani e iniziarono una guerriglia
feroce che costò in tre anni alle legioni cinquantamila uomini. Tutto finì col
rafforzamento del Vallo di Adriano.
Ma nel 211 la guerra riprese per opera dei Meati.
Settimio Severo, che si
trovava ad Eburacum (York), si apprestava a riprendere la guerra, quando morì,
assillato dalla gotta
Caracalla (211-217)
- 4 aprile 188 - 8 aprile 217
Settimio Severo aveva due figli: Bassiano Antonino, nato a Lione nel 188, detto Caracalla dal nome del mantello militare che distribuì a popolo e soldati, e
Geta nato nel 189.
Ambedue
si odiavano, non tenevano alla patria nè alla guerra, amando solo i giochi
gladiatori, le corse dei cocchi e i piaceri.
Settimio Severo li condusse al campo e alla battaglia fin dai primi tempi, ma
non riuscì ad inculcare loro alcuno dei valori paterni.
Le immagini di Caracalla lo mostrano piuttosto pingue da fanciullo, snellito in età
giovanile e di nuovo pingue con l'età.
Il volto sembra di bassa estrazione sociale, di certo non aveva preso dalla
madre che si diceva bellissima. Fronte bassa, naso largo, sguardo accigliato,
mento lungo, capelli ricci, insomma una persona incline all'ira e al rancore.
Assetato di potere, vedeva in chiunque un possibile pericolo, incluso il proprio
fratello.
Allevato dai migliori precettori, aveva preso il gusto dell'arte grandiosa,
ricca di marmi pregiati, fregi e mosaici, come dimostra l'opera più grande da
lui lasciata, le terme di Caracalla.
Alla morte di Settimio i fratelli tornarono a Roma con le ceneri del padre
seppellendolo nella tomba degli Antonini, poi si stabilirono nella reggia sul
Palatino, ciascuno con i propri soldati.
La madre Giulia Domna tentò invano di riconciliarli. Caracalla ben presto si
sbarazzò del fratello, praticamente sotto gli occhi della madre.
Giulia Domna, aveva infatti chiamato Geta per rappacificarlo con il fratello,
quando gli piombarono addosso i sicari di Caracalla che lo pugnalarono a morte.
L'arma per l'assassinio fu da Caracalla consacrata nel tempio di Serapide,
indirizzando al fratello morto la frase: "sit divus dummodo non vivus", Sarai un
Dio ma non sei vivo.
Caracalla si recò quindi al campo dei Pretoriani, dove Geta era popolare, e
raccontò d'essere sfuggito a un attentato dal fratello, e per essere più
convincente regalò a ciascun soldato duemila e cinquecento denari.
Al Senato raccontò la stessa storia accordando l'amnistia generale.
Invece fece uccidere tutti gli amici e i simpatizzanti di Geta dai soldati che
ne saccheggiarono le case.
Per Dione Cassio fece una strage di ventimila persone, fra cui un figlio di
Pertinace, un pronipote e una sorella di Marco Aurelio, e Ostilio Papiniano, per
aver risposto all'imperatore, che voleva l'apologia del fratricidio, che era più
facile commetterlo che giustificarlo.
Giulia Domna sembra non tenesse rancore al figlio per averle ammazzato l'altro
figlio. Anzi collaborò con Caracalla al governo, dirigendo la cancelleria
imperiale, così ogni editto portava anche il nome della madre.
Le Terme -
A Caracalla resta legato uno dei più bei monumenti di Roma, le grandiose Terme
di Caracalla, per accogliere oltre 1600 persone, con mille e seicento vasche
marmoree, musei, biblioteche, sale da studio, palestre ginnastiche, portici e
giardini. Per le terme fu costruito un apposito acquedotto, e vennero
considerate una delle sette meraviglie del mondo.
Se ne conservano molti resti e ancora vengono usate per concerti e opere
liriche.
Leggi e provvedimenti -
•alzò la paga ai legionari;
•impose all'esercito la falange macedone quando era già superata;
•fece applicare agli adulteri la pena di morte;
•fece diminuire del 25% la quantità di argento nei denari;
•emanò la Constitutio antoniniana, per cui diventavano cittadini dell'Impero
tutti gli abitanti liberi che lo popolavano;
•migliorò la situazione degli schiavi;
•garantì la successione e la tutela dei minorenni;
•portò dal dieci al venti per cento la tassa di affrancamento;
•portò dal dieci al venti per cento la tassa di successione anche ai parenti
prossimi dell'estinto;
Il Senato si vide togliere potere e privilegi, che aumentarono invece
nell'esercito.
Dione Cassio narra che Caracalla fosse solito dire: "Nessuno, all'infuori di me,
deve avere denaro, affinchè io possa darlo ai soldati".
Regalò molto denaro al popolo e ai cortigiani; ordinò sontuosi palazzi nelle
città che lui doveva visitare, palazzi che l'imperatore non tutti né vide né mai
abitò. Ordinò di costruirgli circhi ed anfiteatri, che dopo venivano demoliti, nei
luoghi in cui doveva risedere per un periodo.
Cultura: sotto Caracalla fiorisce la cultura orientale con opere erotiche. Gli
autori più famosi furono Achille Tazio, Giamblico e Longo. Caracalla si circondò
anche di sofisti come Filostrato, poeti come Oppiano e uomini ci cultura come
Ateneo e Eliano che affermarono la cultura enciclopedica.
Guerre -
Circa un anno dopo l'assassinio di Geta, Caracalla lasciò Roma e si recò in
Gallia; di là in Rezia contro un popolo che minacciava i confini occidentali
dell'impero, gli Alemanni.
Ne riportò una vittoria visto che l'imperatore si fregiò dei titoli di
Germanicus e di Alemannicus, ma per alcuni perse e dovette comprare dai barbari
pace e alleanza.
Comunque riuscì a mettere la discordia tra Vandali e Marcomanni, punì i Quadi
ribelli mettendone a morte il re, e pose in sicurezza i confini.
Dalla Rezia Caracalla si recò in Oriente. Volendo emulare le gesta di Alessandro
il Grande cercò di assoggettare la Parzia, tanto più che nel 209 era morto
Vologeso IV e, dopo un periodo di contrasti, i due figli, Vologeso V e Artabano
V, avevano diviso fra loro l'impero.
Caracalla volse verso il Danubio.
Concluse un accordo coi Daci Uberi facendosi
consegnare ostaggi, in Tracia costituì una falange di sedicimila uomini, poi
passò in Asia e si stanziò a Nicomedia per preparare la guerra. Intanto andò
nella Troade e copiò sulla tomba del suo liberto Festo il sacrificio di Achille
sul sepolcro di Patroclo.
Invitò poi Abgare, principe dell'Osroene, a Nicomedia con l'inganno, e, dopo
averlo fatto prigioniero, si impadronì del suo stato facendo di Edessa una
colonia romana.
Evidentemente le notizie non circolavano, perchè fece lo stesso col re
dell'Armenia che prese prigioniero insieme a moglie e figli, ma la popolazione
rifiutò di sottomettersi e dovette desistere.
Passò quindi in Antiochia e in Alessandria di Egitto. Gli abitanti di questa
città avevano dato a Giulia Domna il nome di Giocasta alludendo ai rapporti
incestuosi tra l'imperatrice e il figlio, e a questo il nome di Alexander
Geticus alludendo alla mania di emulare Alessandro e al fratricidio.
Caracalla di nuovo usò l'inganno.
Invitò i primi cittadini a un banchetto, li
fece uccidere tutti, poi sparse le soldatesche per le vie, dove fecero un
massacro di cittadini. Alessandria venne abbandonata al saccheggio e poi divisa
con un muro in due quartieri non comunicanti.
Nel 216 Caracalla fece ritorno in Antiochia e mosse guerra ai Parti per punire
Artabano V che gli aveva rifiutato la mano della figlia. Devastò la Media,
occupò la città di Arbela e distrusse i sepolcri degli antichi re.
Lo spirito dei Cesari che rispettavano i vinti, le loro opere e i loro
costumi, la proverbiale clemenza degli imperatori, che fece sopportare a molti
popoli il giogo di Roma, non esisteva più. Poi però Caracalla non si avventurò nella Parzia, con tutto che il nemico era fuggito, e fece
ritorno in Mesopotamia per svernare a Edessa.
Qui venne ordita la congiura per uccidere l'imperatore da Opellio Macrino,
prefetto del pretorio; l'esecutore fu Marziale, della guardia imperiale, che
odiava Caracalla per la mancata promozione.
Si era nel 217 d.C., Caracalla si recò a Carre per fare un sacrificio al dio
Luno e durante il viaggio venne assassinato da Marziale, poi inseguito e
trucidato dalle guardie dell'imperatore.
Giulia Domna apprese ad Antiochia l'uccisione del figlio, ma mentre per Geta non
aveva versato una lacrima, per Caracalla si disperò al punto di lasciarsi morire
di fame. Forse le dicerie sul suo rapporto incestuoso non erano così prive di
realtà.
Oppure la ferì maggiormente l'acclamazione di Opellio Macrino, che le avrebbe
tolto tutti i privilegi da imperatrice, visto che a Roma, più del figlio aveva
imperato lei.
MACRINO (217 - 218) - 164 - giugno 218 (54
anni) -
Marco Opellio Macrino, fu imperatore solo per quattordici mesi. Nato da
una famiglia dell'ordine equestre, fu sotto Caracalla Prefetto del pretorio,
pertanto secondo in comando all'imperatore e responsabile dei Pretoriani.
Nel 217 Caracalla andò
in oriente per combattere contro i Parti, e Macrino lo seguì. Quando
l'imperatore si recò a visitare un tempio, accompagnato solo dalla sua guardia
del corpo, tra cui Macrino, venne assassinato.
Allora le truppe offrirono l'impero a Coclatinio Avvento, uno dei due Prefetti
del pretorio, ma questi prudentemente rifiutò.
Così, tornato al campo, Macrino, che nessuno sapeva autore della congiura,
simulò abilmente il dolore per la morte di Caracalla, si che dopo tre giorni si
fece proclamare imperatore.
Fu il primo imperatore che non fosse stato prima membro del Senato. Egli nominò
anche suo figlio Diadumeniano cesare e successore, nonchè Principe della
gioventù. Si fregiò pure del titolo di Severo, ma non avendo alcuna attinenza
con quella famiglia, suscitò l'irrisione di tutti.
Poi Macrino scrisse al Senato promettendogli sottomissione e rispetto, cose che
il Senato accettò, perchè felicissimo di essersi liberati del crudele
predecessore. Anzi gli conferì il pontificato massimo, l'imperio proconsolare e
la potestà tribunizia; al figlio confermò il titolo di Cesare aggiungendogli
quello di principe della gioventù.
Sempre per ottenere il favore delle truppe ordinò l'apoteosi di Caracalla, ma ne
mandò le ceneri a Roma di notte, senza cerimonie, e le fece deporre nel mausoleo
degli Antonini.
Poi annullò le condanne per accusa di maestà, punì con l'esilio i favoriti del
predecessore, fece uccidere i servi che avevano denunciato i padroni e ridusse
le imposte che Caracalla aveva aumentato, tutte manovre tese a conquistare
l'appoggio del Senato, ma contemporaneamente mise ai posti di comando i suoi
amici e quanti parteggiavano per lui.
Alla notizia della morte di Caracalla, i Parti invasero i territori romani che
avevano perduto nelle precedenti battaglie. Pertanto Macrino decise di
trattenersi in oriente e lo scontento cominciò a manifestarsi a Roma.
Intimorito dai Parti, Macrino cercò di ottenere la pace e ci riuscì ma a
carissimo prezzo e senza la restituzione dei prigionieri, in più dovette
restituire il bottino e i prigionieri fatti da Caracalla, oltre a duecento
milioni di sesterzi.
La stessa cosa fece con gli Armeni, restituendo al loro re
i beni conquistati da Caracalla ed assegnandogli un mantenimento annuo.
Macrino
era un pessimo generale che non riscuoteva il consenso delle truppe, in più
esigeva un'esagerata disciplina senza avere l'animo, come faceva Giulio Cesare,
di darne per primo l'esempio. Anzi si racconta fosse proclive alla gola e ai
piaceri. Intanto Giulia Mesa, sorella di Giulia Domna madre di Caracalla, e le
figlie Giulia Soemia Bassiana e Giulia Mamea, ricevettero l'ordine di lasciare
il palazzo imperiale e tornare nel luogo di origine della loro famiglia, in
Siria.
Mentre Macrino accumulava figuracce in Oriente, le donne cominciarono a
complottare in favore del figlio di Giulia Bassiana, cioè Bassiano, detto
Eliogabalo, ritenuto, a torto o ragione, figlio naturale ed erede di Caracalla.
Giulia Mesa fece man bassa delle ricchezze del tempio di Elios, il cui
sacerdozio era ereditario nella famiglia di Domna Giulia e di Mesa,
distribuendolo alla legione accampata vicino ad Emesa perchè fosse ben disposto
verso Vario Avito Bassiano, cioè Eliogabalo, sacerdote di Elios.
Poi mandò il figlio quattordicenne al campo con gli abiti che Caracalla
indossava da giovane. I legionari, colpiti dalla somiglianza, lo acclamarono
imperatore col nome di Marco Aurelio Antonino nel 218. Venutone a conoscenza,
Macrino mandò contro la legione di Emesa il prefetto Ulpio Giuliano, ma i suoi
stessi soldati si misero con Marco Aurelio Antonino uccidendo Giuliano.
Eliogabalo, che aveva preso il potere col nome di Marco Aurelio Antonino,
intanto aveva preso le armi contro i Parti combattendo con onore, ma Macrino
fuggì timoroso della sorte della battaglia, nominando Augusto il fratello
Diadumeniano e inviandolo come ambasciatore alla corte partica. Poi Macrino si
diresse verso Roma per garantirsi l'appoggio del Senato, ma fu catturato in Asia
Minore dalle truppe di Eliogabalo e decapitato come usurpatore; Diadumeniano a
sua volta fu giustiziato dai Parti. Così gli successe Eliogabalo, col nome di
Marco Aurelio Antonino.
ELIOGABALO (218 - 222) 203 circa - Roma, 11 marzo 222 -
Si dice che
Vario Avito, detto Eliogabalo, fosse uomo bellissimo e di grande fascino, perchè
a soli quattordici anni portato nel campo militare suscitò lo slancio e
l'acclamazione di tutti.
Ucciso Macrino, Eliogabalo entrò in Antiochia nel 218, imponendole
un
tributo di guerra che distribuì alle truppe, si conferì l'imperio proconsolare e
la potestà tribunizia, che datò dalla morte di Caracalla, e fece notificare la
decisione al Senato di Roma.
Insieme alla notifica spedì un suo ritratto in cui appariva con una assurda
veste di porpora e d'oro, ingioiellato e con la corona mitraica. Fu il primo
segno di squilibrio di Eliogabalo che, già sacerdote, si era proclamato Gran
sacerdote di Elios, il Dio sole orientale, e alla fine si era messo in testa di
essere lui stesso Elios, e come tale voleva essere adorato.
Il Senato, che non era in grado di opporsi alla volontà dell'esercito, ratificò
l'elezione del nuovo imperatore, esaltò Caracalla e pose il ritratto di
Eliogabalo nel tempio della Vittoria.
Si opposero invece all'elezione i governatori di province partigiani di Macrino
e alcuni comandanti di legione, forse nella speranza d'impadronirsi dell'impero
che ormai saltava di mano in mano. Ma Eliogabalo, appoggiato dall'esercito, ebbe
la meglio e fece uccidere i capi della III Legione Gallica, quello della IV
Scitica, il comandante della flotta di Cizico, Basiliano governatore
dell'Egitto, e i governatori della Pannonia, della Siria, dell'Arabia e di
Cipro. Di propria mano uccise pure un suo zio, insomma una strage.
Dall'Asia poi tornò a Roma e vi portò l'aerolite di Emesa, sacro al dio Sole,
per cui costruì uno splendido tempio sul Palatino: l'Elagabalium. Più che a
governare fu interessato al sacerdozio per il suo Dio. Fin dal regno di Settimio
Severo, l'adorazione di Elios si era diffusa in tutto l'impero, spesso
sovrapposta al Dio Mitra.
Eliogabalo, che prese il nome dal suo Dio El-Gabal, rese pubblico il suo culto
col nome di Deus Sol Invictus (Dio Sole Invitto) e lo pose al di sopra di Giove,
nominando se stesso Sacerdos amplissimus Dei inviati Solis Elagabali.
Le reliquie più sacre, tra cui la Magna Mater, il fuoco di Vesta, gli Ancilia
dei Salii e il Palladio, furono trasferite all'Elagabalium, per assicurarsi la
supremazia del culto al Dio Sole. Eliogabalo si fece persino erigere delle
statue, per farsi adorare come un dio.
In più dette al Dio una compagna, la dea fenicia Astarte che fece trasportare da
Cartagine a Roma, dove furono celebrate le mistiche nozze tra le due divinità
straniere. Figurarsi la rabbia dei Romani, tolleranti certo verso le divinità
straniere, ma non alla declassazione dei propri Dei.
Ma Astarte non fu l'unica Dea, perchè fece ripetere il "matrimonio sacro" (hieros
gamos) con Minerva, e con la dea cartaginese Urania (Tanit).
L'Elagabalium fu costruito sul lato nord-orientale del Palatino, circondato da
colonne, di 70 metri per 40, a sua volta circondato da un portico colonnato. Si
trovava di fronte al Colosseo e la piattaforma del tempio era stata costruita
già sotto Domiziano, probabilmente un luogo di culto di Giove. I resti di questa
terrazza sono ancor oggi visibili sul lato nord-orientale del Palatino, che dà
sull'Arco di Costantino. Dopo la morte di Eliogabalo, il tempio fu ridedicato a
Giove da Alessandro Severo. Del tempio rimangono oggi solo la terrazza e pochi
resti nel giardino della chiesa di San Sebastiano al Palatino. Eliogabalo dedicò
inoltre al Sol Invictus un piccolo tempio dove oggi sorge la basilica di Santa
Croce in Gerusalemme.
Per celebrare le nozze tra i due Dei si unì, in qualità di sacerdote del dio
sole, con la sacerdotessa della dea Vesta, per procreare, come lui stesso disse
"bambini simili a dei". Non c'era scandalo più grande. Il popolo, che aveva
visto, sotto Caracalla, seppellire vive tre vestali colpevoli di aver violato il
voto di castità, vide ora Eliogabalo, ripudiata la moglie Giulia Cornelia Paola,
violare questo sacro principio sposando la vestale Giulia Aquilia Severa.
Inoltre si riteneva che la violazione della castità delle Vestali portasse
grandi sventure a Roma. Per diventare Gran sacerdote, Eliogabalo si fece
circoncidere, costringendo alcuni collaboratori a fare altrettanto. Cassio Dione
racconta che pensasse di castrarsi, senza averne però il coraggio. Emulava così
i Galli, sacerdoti di Cibele la cui barbara usanza di castrarsi era da tempo
stata proibita dai Romani.
Eliogabalo passava il tempo in feste, obbligando i Senatori a presenziare mentre
danzava attorno all'altare di Deus Sol Invictus al suono di tamburi e cimbali.
In più compiva sacrifici umani su schiavi e prigionieri (che i Romani aborrivano
e giudicavano barbari), e cerimonie di unioni sessuali sull'ara del Dio (che i
romani giudicavano indecenti e blasfeme).
Una volta all'anno dal tempio sul
Palatino la Pietra Nera (Lapis niger) di Astarte-Cibele veniva portata a un
altro tempio sopra un carro, tirato da cavalli bianchi, scortato da guardie e
popolo e seguito dalle effigie degli altri Dei, lungo le vie infiorate di Roma.
Nel solstizio d'estate istituì la festa del Dio Sole, con grande distribuzione
di viveri, in cui il simulacro conico del Dio passava per la città su un carro
tirato da sei cavalli bianchi, adornato di gioielli.
Il carro non aveva auriga, come fosse il Dio invisibile a guidarlo, mentre
Eliogabalo camminava all'indietro davanti alla biga, Ovvero davanti al Dio,
facendo il percorso tutto a ritroso. Una cosa che piaceva al popolo ma mandava
in bestia Senatori e milizie.
Un'altra cosa che scandalizzò i Romani fu l'orientamento sessuale e il
comportamento di Eliogabalo sulla base orgiastica delle religioni orientali, ma
la società romana era bel lungi da questa mentalità di orge, rapporti
omosessuali, prostituzione sacra, e sesso in generale. Di Eliogabalo si diceva a
Roma che l'imperatore era il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i
mariti. Ciò fu detto anche a Giulio Cesare, ma questi faceva la sua vita ben
lontana dagli occhi di tutti, e più dell'avventura omosessuale con re di Bitinia
non si sapeva, anche se si supponeva.
Eliogabalo sposò, per poi divorziare, cinque donne, delle quali conosciamo solo
tre. La prima moglie fu Giulia Cornelia Paula, che sposò giunto a Roma, per
avere figli con cui continuare la dinastia, ma da cui divorziò con la scusa di
una non citata imperfezione fisica.
Come seconda moglie ebbe la vergine vestale Aquilia Severa, che lasciò però dopo
un anno per sposare Annia Faustina, discendente di Marco Aurelio e vedova di
Pomponio Basso, fatto giustiziare da poco da Eliogabalo stesso. Entro il 222
però tornò da Aquilia.
La relazione più importante però fu quella con un auriga, uno schiavo biondo
della Caria di nome Ierocle, che l'imperatore chiamava suo marito.
Per la Historia Augusta, scritta un secolo dopo, sposò anche un uomo di nome
Zotico, un atleta di Smirne, con una cerimonia pubblica nella capitale.
Cassio Dione scrisse che Eliogabalo si dipingeva le palpebre, si depilava e
indossava parrucche prima di prostituirsi nelle taverne e nei bordelli, e
persino nel palazzo imperiale. Infine, riservò una stanza nel palazzo e lì
commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta della camera,
come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro,
mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti.
Il governo dello stato passò nelle mani della nonna e dei favoriti e per la
prima volta si vide a Roma una donna, Mesa, intervenire al Senato e firmarne i
decreti. I Senatori erano scandalizzati dal comportamento dell'imperatore ma il
popolo no, per le frequenti elargizioni dell'imperatore e le feste molto
folcloristiche in onore di Elios, ma i Pretoriani erano allarmati, anche perchè
Mammea, aiutata da Mesa, aveva con elargizioni raccolto simpatie in favore del
figlio Alessiano. Tanto fece che convinse Eliogabalo ad adottare il cugino nel
221, dichiarandolo Cesare col nome di Marco Aurelio Alessandro. Però il favore
delle truppe verso di lui allarmarono Eliogabalo, che annullò l'adozione e gli
tolse il titolo di Cesare.
I soldati si ribellarono e, messo al sicuro nel campo di porta Nomentana il
giovane cugino, assalirono la villa in cui si trovava Eliogabalo minacciando di
ucciderlo se non avesse revocato la cancellazione e non cacciasse dalla corte i
favoriti. Cessato il pericolo, l'imperatore ricominciò a mostrare il suo
malanimo verso il cugino.
Nel 222 non permise che Alessandro salisse insieme con
lui sul Campidoglio per compiervi i voti; poi ordinò ai senatori di allontanarsi
da Roma, con la speranza di far ammazzare il cugino senza che alcuno si
opponesse.
I soldati delle coorti pretorie, che avevano subdorato le intenzioni, insorsero,
soprattutto perchè Eliogabalo aveva sparso la notizia allarmante di una malattia
di Alessandro suo cugino. L'imperatore in compagnia della madre corse al campo
per calmarli, ma non riuscendovi si nascose in una closea (fogna). I cortigiani
vennero trucidati dalle soldatesche inferocite; Eliogabalo e Soemide, trovati
nel loro rifugio, furono uccisi e i loro corpi, furono trascinati per le vie e
infine gettati nel Tevere.
Aveva governato per circa quattro anni.
ALESSANDRO SEVERO (222 - 235) - 1º ottobre 208 - 18/19 marzo 235 (26 anni) -
Bassiano Alessiano, chiamato poi Alessandro Severo, nacque nel 208 ad Arca
Caesarea, in Fenicia. Suo padre era Marco Giulio Gessio Marciano, funzionario
equestre con il ripetuto incarico di Procuratore imperiale, sua madre Giulia
Avita Mamea, al secondo matrimonio. Aveva una sorella e forse un fratello (Marco
Giulio Gessio Bassiano).
Nei ritratti appare con corta capigliatura e cortissima barba, come usava al
tempo tra i soldati. Il volto ha un ovale regolare, la fronte bassa, il naso
greco e il mento appuntito. Secondo il suo biografo Lampidio, egli si riteneva
una reincarnazione di Alessandro Magno e adorava tra i suoi Dei domestici,
accanto ai Lari, Abramo, Orfeo, Alessandro e Gesù Cristo.
Alessandro fu l'ultimo degli imperatori "siriani".
Salvato nel campo dei Pretoriani fu alla morte di Eliogabalo, acclamato e
portato in Senato, che fu ben felice di accordargli la Tribunizia e il
Proconsolato, nonchè il titolo di Pater patriae (Padre della Patria) perchè il
titolo di Imperator glielo aveva già dato Eliogabalo.
Rifiutò con grazia il titolo di Antonino proclamandosene indegno e pure quello
di Grande (Magno) offertogli dal Senato, che lo avrebbe paragonato ad Alessandro
il Macedone.
Era un ragazzo semplice, cordiale e di buoni intenti, ma a causa della
giovanissima età, fu guidato dalla madre, donna saggia e virtuosa ma pure
possessiva, che lo circondò di saggi consiglieri: il giurista Ulpiano, lo
storico Cassio Dione, un comitato di sedici senatori ed un consiglio municipale
di quattordici Prefetti urbani che amministravano i distretti di Roma.
Nel 225 Alessandro sposò Sallustia Orbiana, che però a causa della gelosia della
madre esiliò in Libia insieme al padre, che infine fece uccidere. Così di nuovo
tornò sotto la tutela materna.
Provvedimenti di Alessandro Severo:
•Abolì il culto di Eliogabalo, facendo riportare statue e reliquie nei
rispettivi templi.
•Epurò la corte da favoriti, attori, saltimbanchi e musici, donandoli o
vendendoli come schiavi.
•In Senato e nell'esercito fece valere il merito, cacciando i corrotti e gli
inetti e proponendo gli uomini più validi.
•Fece migliorare lo standard del conio.
•Per evitare lo strozzinaggio, furono istituite agenzie di prestito a basso
interesse, del 4%.
•Incoraggiò la letteratura, le arti e le scienze.
•Alleggerì le tasse.
•Aumentò l'assegnazione di terre ai soldati.
•Acquistò grano a proprie spese, donandolo al popolo per ben cinque volte.
•Decretò fosse reintrodotta la legge che proibiva la presenza contemporanea di
ambo i sessi nelle terme, abrogata da Eliogabalo.
Opere di Alessandro Severo
•Fece restaurare e rinominare le terme di Nerone, che presero il nome di Terme
alessandrine nel 227.
•Per alimentarle, fece costruire l'acquedotto Alessandrino, e le recintò con un
bosco piantato al posto di costruzioni da lui acquistate e fatte demolire.
•Decretò delle tasse per curarne la manutenzione, adibì alcuni boschi a fornire
il legname per il loro funzionamento e le rifornì di olio da illuminazione.
•Fece restaurare le terme di Caracalla, cui aggiunse un portico.
•Arricchì il Foro di Traiano con statue di uomini illustri.
•Arricchì il Foro di Nerva con statue di imperatori divinizzati.
•Provvide alla manutenzione del tempio di Iside e Serapide, del Teatro di
Marcello, del Circo Massimo e dello Stadio di Domiziano.
•Restaurò il Colosseo, colpito da un fulmine durante il regno di Macrino,
finanziando i lavori con le tasse su procuratori, prostitute e catamiti (prostituti).
•A Dougga, in Tunisia, è conservato un arco di trionfo eretto in suo onore.
Religione -
Secondo la Historia Augusta, Alessandro pregava tutte le mattine Lari e Penati,
e le statue di alcuni imperatori divinizzati e di grandi personaggi, come
Apollonio di Tiana, Alessandro il Grande, Cristo, Abramo e Orfeo. Insomma una
religione aperta e un po' raffazzonata.
Ebbe molto rispetto per ogni tipo di religione e di sacerdoti, fossero
pontefici, auguri o i custodi dei Libri sibillini (un collegio di cui anche
l'imperatore faceva parte), accettando su di esse e su altre qualsiasi tipo di
discussione.
Ogni sette giorni rendeva omaggio al tempio di Giove Capitolino e visitava
frequentemente anche gli altri templi. Restituì agli ebrei gli antichi
privilegi, e tolse la persecuzione ai cristiani.
Fece suo il principio «Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris» (ciò che non
vuoi sia fatto a te, non farlo ad altri); facendolo incidere sul suo palazzo e
in altri luoghi pubblici.
Guerre -
Campagna sasanide (230-233)
Nel 224 in Oriente Artabano IV fu cacciato da Ardashir I che fondò la dinastia
sasanide nel regno dei Parti. I Sasanidi rivendicarono allora l'impero degli
Achemenidi, con i territori romani dell'Asia Minore e del Vicino Oriente.
Della campagna sasanide di Alessandro Severo esistono due racconti contrastanti:
quello di Erodiano, che descrive gli errori dell'imperatore nella guerra però
con la pace e il ripristino delle terre; quella della Historia Augusta dove si
racconta la grandiosa vittoria di Alessandro.
Per Erodiano Alessandro fece un infiammante discorso alle truppe schierate, poi
distribuì doni in denaro e si recò al Senato per fare un discorso simile onde
preparare tutti alla guerra.
Il giorno della partenza, nel 231, Alessandro lasciò Roma piangendo, e con lui
piansero Senatori e Popolo, a lui affezionati.
Passato per l'Illirico, dove raccolse altre truppe, raggiunse Antiochia con
un'ulteriore offerta di pace ad Ardashir, che per tutta risposta invitò
Alessandro ad abbandonare le terre fino al Bosforo; Alessandro arrestò i
quattrocento inviati sasanidi e li mandò a coltivare terre in Frigia, senza però
ucciderli.
Alessandro decise di far passare il Tigri e l'Eufrate all'esercito, ma si trovò
ad affrontare ammutinamenti delle truppe e persino la proclamazione di un
usurpatore, Taurino; riuscì a sedarli ma decise di tenere con sé solo le truppe
più affidabili.
Al dunque fu però indeciso nell'attaccare e questo lo portò alla disfatta. I
soldati, minati da malattie per l'ambiente malsano e la scarsità di provviste,
accusarono l'imperatore di aver causato la distruzione dell'esercito.
Alessandro ordinò allora che i due gruppi superstiti di truppe si recassero a
svernare ad Antiochia: ma nel viaggio a causa della temperatura rigida molti
soldati morirono.
Però Ardashir, anch'egli con numerose perdite, aveva sciolto l'esercito per la
pausa invernale, mentre gli Alemanni avevano passato Reno e Danubio e stavano
saccheggiando campi e città in forze.
Per l'Historia Augusta Alessandro avrebbe sconfitto Ardashir prendendo parte
personalmente alla battaglia. Comandando il fianco destro romano, obbligò i
nemici alla rotta pur possedendo l'esercito partico settecento elefanti e mille
e ottocento carri falcati, oltre a migliaia di cavalieri.
Tornato ad Antiochia, Alessandro avrebbe diviso tutto il bottino tra i soldati.
Per il trionfo di Alessandro a Roma: secondo Erodiano l'imperatore si affrettò a
fermare la minaccia germanica, per l'Historia Augusta avrebbe invece celebrato a
Roma il trionfo sui persiani con donativi al popolo e giochi.
Campagna germanica (234-235) -
Secondo Erodiano, Alessandro saputo che gli Alemanni avevano saccheggiato le
province romane dell'Illirico, mettendo in pericolo anche l'Italia, voleva
muover guerra. Questa notizia causò malcontento nell'esercito, soprattutto nelle
truppe illiriche prelevate per la campagna contro i Parti indebolendo le difese
di confine.
Alessandro si mosse rapidamente dalla frontiera orientale all'Illirico con gran
parte dell'esercito, senza passare da Roma.
Decise però di non rischiare una guerra e di corrompere i barbari e ottenere una
pace incruenta (235). Queste trattative inasprirono i soldati, sia perchè la
pace non sarebbe durata, sia per la mancanza di bottino.
Morte -
Gli ammutinamenti divennero frequenti ed in uno di questi venne ucciso il
Prefetto dei pretoriani Domizio Ulpiano; un altro provocò il ritiro dello
storico Cassio Dione dal suo comando.
Alessandro fu ucciso nel 235 a Mogontiacum insieme alla madre, in un
ammutinamento probabilmente capeggiato da Massimino Trace, un generale della
Tracia, che ad ogni modo si assicurò il trono.
Secondo Erodiano i soldati decisero di rovesciare Alessandro, considerato troppo
debole, e di sostituirlo con Massimino, dotato di maggiori capacità militari.
Dopo aver acclamato Massimino imperatore, si recarono presso l'accampamento di
Alessandro.
Alessandro spaventato promise ai propri uomini di fare quel che volevano in
cambio della protezione, ma i soldati rifiutarono. Abbandonato dalle truppe,
Alessandro si ritirò presso la propria tenda, con la madre Giulia Mamea,
aspettando l'arrivo degli uomini di Massimino che li uccisero entrambi.
La Historia Augusta, invece, racconta che dopo numerosi cattivi presagi,
Alessandro fu ucciso per aver sorpreso un soldato germanico della scorta nella
sua tenda: il soldato, temendo di essere punito, avrebbe riunito i compagni e
ucciso l'imperatore e la madre.
Con la caduta dell'ultimo dei Severi, molte raffigurazioni di Alessandro e di
sua madre furono distrutte, in onore del nuovo imperatore. Nel 238, con la morte
di Massimino Trace e l'ascesa al trono di Gordiano III, Alessandro fu
divinizzato e, per l'ultima volta, fu costituito un collegio di sodales in suo
onore. Così, in molte iscrizioni il suo nome fu ripristinato.
Alessandro fu inumato in un sarcofago, ora ai Musei Capitolini, assieme alla
madre, e posto in un mausoleo, oggi noto come Monte del Grano, a Roma.
L'ANARCHIA MILITARE DEL III SECOLO(235-268)
-
Nel periodo che va dal 235 al 268 si
ebbe un periodo di grave disordine ed
instabilità che siamo soliti definire anarchia militare, caratterizzata dallo
strapotere dell’esercito in una situazione di vuoto e di instabilità in termini
di potere centrale e politico.
Diversi furono gli imperatori di questo periodo:
il primo fu Giulio Vero Massimino (detto Massimino il Trace), che
governò dal 235 al 238, anno in cui fu assassinato dai suoi legionari. Benché
fosse inviso al Senato e a gran parte della popolazione, Massimino il Trace
riuscì a governare per qualche anno, grazie alla sua riconosciuta esperienza
militare, di cui l’impero in questa fase di grande pericolo aveva certamente
bisogno. Massimino ottenne importanti successi lungo il Reno e il Danubio contro
le popolazioni germaniche. Tuttavia, i crescenti sforzi militari richiesero un
notevole aggravio della pressione fiscale ai danni dei contribuenti. I
cittadini, soprattutto gli aristocratici, non furono disposti a finanziare le
guerre con le nuove tasse imposte da Massimino. Per questo ci furono diverse
rivolte dentro e fuori l’Italia, finché Massimino il Trace non venne ucciso dai
suoi legionari presso Aquileia. Con Massimino il Trace si ebbe anche una nuova e
più sistematica persecuzione dei Cristiani ai quali lo Stato confiscò anche
molti beni che andarono a rimpinguare l’erario pubblico.
A lui
successe il dodicenne Gordiano III che regnò per alcuni anni, fino
al 244 d.C., con il sostegno del suocero, prefetto del pretorio, la cui morte
mise poi a repentaglio lo stesso impero di Gordiano.
Per cinque anni, dal 244 al
249, governò Filippo l’Arabo. A lui toccò, il 21 aprile 248,
celebrare il primo millenario della fondazione di Roma.
Questi venne, però,
ucciso da Decio, generale delle truppe della Pannonia, che governò
dal 249 al 251. Decio dovette fronteggiare i Goti e i Persiani. Morì nel 251,
combattendo contro i Goti.
Dopo ulteriori avvicendamenti si giunse all’impero di
Valeriano (253 – 260). Valeriano, che associò a sé il figlio
Gallieno, attaccò i Persiani, ma fu catturato e fatto prigioniero dal loro re
Shapur. Mai, fino a questo momento, era successo che un imperatore romano
cadesse prigioniero in mano nemica.
Morto Valeriano, il figlio Gallieno
governò, come imperatore unico, dal 260 al 268. Anche Gallieno, però,
morì violentemente, vittima di una
congiura. Sotto il suo regno, le tendenze separatistiche delle province si
esasperarono. Infatti, l’impero si trovò
diviso in tre parti: oltre a quello “ufficiale” guidato da Roma, in Oriente, si
costituì, sotto la guida della regina Zenobia, il Regno autonomo di Palmira,
attorno alla città omonima, comprendente il territorio della Siria, della
Palestina e della Mesopotamia; in Occidente, invece, sorse, sotto la guida del
generale Postumo, il Regno autonomo delle Gallie comprendente Gallia, Spagna e
Britannia.
Intanto i barbari, approfittando di questa generale anarchia, irrompevano dai
confini dell'impero: i Goti, varcato il Danubio, penetravano nella penisola
balcanica; gli Alemanni, varcate le Alpi, dilagavano nella pianura padana; i
Persiani conquistavano l'Armenia, a Mesopotamia e la Siria.
Deceduto Gallieno, governò, dal 268 al 270, M. Aurelio Claudio, chiamato
Gotico per una sua vittoria sui Goti. Questo imperatore morì di peste.
Poi fu la volta di Aureliano, dal 270 al 275. Questi restaurò
l’unità dell’impero in Asia e nelle Gallie e difese l’Italia da un’invasione di
barbari. Per fronteggiare il pericolo di nuovi attacchi, Aureliano fece
costruire attorno alla città di Roma delle poderose mura difensive, dette mura
aureliane. Oltre ad aver ricostituito l’unità dell’impero, Aureliano riuscì
anche a ridare prestigio alla figura del sovrano attraverso la divinizzazione
del monarca, considerato come tramite tra uomini e divinità, associando il culto
del dio Sole a quello dell’imperatore. Il culto introdotto da Aureliano si
ispirava all’analogo tentativo intrapreso, tra il 218 ed il 222, da Elagabalo.
Alla morte di Aureliano, nel 275, seguì un altro decennio di instabilità e di
anarchia durante il quale possiamo citare Probo (276-282) e
Caro (282-283), che continuarono a difendere l'impero contro le
sempre più frequenti irruzioni dei barbari.
La svolta si ebbe nel 285, con
l’ascesa al potere dell’imperatore illirico Valerio Diocleziano
(285 – 305).
Durante questo cinquantennio, che va dalla morte di Alessandro Severo (235)
all'avvento al trono di Diocleziano (284), l'impero si va trasformando da
autocrazia militare a monarchia apertamente teocratica.
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