Nuove nazioni e imperialismo tra 800 e 900 | ||
Guerra dei 7 anni (1756-1763) Venuto a conoscenza, tramite alcune spie, di questo patto segreto, Federico Il di Prussia cerca ed ottiene l'alleanza dell'Inghilterra, interessata al mantenimento dell'integrità della Prussia in funzione dei suoi commerci baltici, ed attacca per primo invadendo la Sassonia.
Comincia così, nel 1756, la cosiddetta guerra dei Sette Anni. Nei primi tre anni, dal 1756 al 1759, la Svezia è alle prese con difficoltà di ordine finanziario, la Polonia è impegnata a difendere la Sassonia, la Russia non riesce ad organizzare la mobilitazione delle sue forze armate. Eserciti francesi e austriaci hanno quindi campo libero per invadere la Prussia, ma sono sconfitti e respinti dall'esercito di Federico II che con straordinaria mobilità riesce ad affrontarli separatamente. Intanto nelle colonie (India, America settentrionale, Africa) si ha un grande scontro franco-inglese, che, inizialmente a favore della Francia, volge poi a vantaggio dell'Inghilterra, grazie alle risorse che essa è in grado di mobilitare fuori d'Europa. Artefice di questi trionfi inglesi è William Pitt, un capo whig che re Giorgio Il (1727-1760) è stato costretto a chiamare alla guida del governo, dopo l'inizio della guerra dei Sette Anni, per poter mobilitare tutte le risorse necessarie ad affrontare il grande conflitto. Ma nel 1760, Giorgio III (1760-1820), più interessato alle fortune della sua dinastia e ai suoi possessi nell'Hannover che ai commerci inglesi nel mondo, licenzia Pitt (1761) e, dopo 46 anni di governo degli whigs, si appoggia al partito tory, che offre immediatamente la pace alla Francia. Nel frattempo, la Russia è riuscita a mobilitare le sue forze armate, e la Polonia ad organizzare un nuovo esercito, cosicché la Prussia è stata invasa (1760) da ben sei eserciti (francese, bavarese, austriaco, russo, polacco e sassone),contro i quali nulla hanno potuto l'efficienza e la disciplina delle forze di Federico II, costretto ad abbandonare ai suoi nemici la stessa Berlino (1761). Il duca di Choiseul, l'incapace ministro degli esteri francese giunto a quell'alta responsabilità solo perché appartenente a un gruppo di nobiltà feudale favorito dalla Pompadour, amante del re Luigi XV, sopravvaluta l'importanza delle sconfitte prussiane e interpreta l'offerta di pace che gli viene dall'Inghilterra come un segno di debolezza. Perciò la respinge, convincendo, nello stesso tempo, i sovrani di Spagna, Napoli e Parma a stipulare con il sovrano di Francia il 'Patto di famiglia", cosiddetto perché questi sovrani appartengono alla famiglia dei Borbone, che li impegna tutti ad una lotta per la distruzione della potenza dell'Inghilterra (1761). Questa, allora, mobilita tutte le sue flotte, e nel biennio 1761-'62 infligge ai suoi nemici danni tremendi, cacciando i Francesi dal Canada e dalle Antille, gli Spagnoli da Cuba e dalle Filippine, e i Napoletani dalla Sicilia. Di fronte a tanti disastri, aggravati dalla riconquista di Berlino (1762) da parte di Federico II, che ha potuto armare un nuovo esercito con i finanziamenti inglesi ed è riuscito a stipulare una pace separata con la Russia, le potenze borboniche sono costrette a chiedere precipitosamente la pace. La pace di Parigi, con la quale termina, nel 1763, la guerra dei Sette Anni, sancisce in Europa la reintegrazione di tutti i possedimenti del regno di Prussia e, fuori d'Europa, la cessione all'Inghilterra, da parte della Spagna, della Florida (in cambio della quale la Spagna ottiene la Louisiana francese, che, nelle mani di uno Stato debole e in decadenza come quello spagnolo non rappresenta alcun pericolo per l'Inghilterra), e da parte della Francia tutti i possedimenti francesi in Canada, in India e in Senegal. L’Inghilterra esce dalla guerra come dominatrice dei mari del mondo mentre le potenze dell'Antico Regime, che hanno speso nella guerra enormi somme di denaro, senza ricavarne alcun risultato, vengono da ora in poi coinvolte in una crisi sempre più grave dei loro sistemi sociali feudali. Alla fine della guerra dei Sette anni (1756-1763) dunque, la
Gran Bretagna, risultò essere la maggiore potenza e dominatrice assoluta sui
mari, ma nonostante ciò la corona inglese si ritrovò a dover sostenere enormi
spese di guerra e la responsabilità di amministrare e difendere i nuovi
territori acquisiti in Nord America.
Guerra di indipendenza Americana (1775-1783) La situazione precipitò, e così il governo ritirò ogni altra imposizione, fuorché una lieve tassa sul tè, la cui importazione in America venne data alla Compagnia delle Indie, per favorire questo potente gruppo capitalistico. La prima nave della Compagnia delle Indie che si presentò al porto di Boston venne assalita da un gruppo di cittadini travestiti da indiani, che ne rovesciarono il carico in mare. Il governo adottò misure di punizione contro la città ed in risposta i patrioti americani riunirono i rappresentanti di tutte le coloni a Philadelphia nel settembre del 1774 nel primo Congresso continentale per stabilire una linea d'azione comune e definire i diritti delle terre d'America e i limiti dell'autorità del Parlamento di Londra. Inutilmente, Benjamin Franklin, che si era recato in missione in Inghilterra per conto delle colonie, tentò di far recedere il parlamento dalle sue decisioni. Il presidio inglese di Boston inviò una colonna nelle campagne circostanti, per sequestrare le armi di cui gli abitanti cominciavano già a provvedersi. Nell'aprile 1775, mentre si dirigeva verso Concord, nel Massachusetts, per distruggere le riserve di polvere da sparo dei coloni americani, un contingente britannico, sotto la guida del generale Thomas Gage, si scontrò a Lexington con un gruppo di 70 volontari. Non si sa quale delle due parti abbia scatenato la battaglia, ma gli otto coloni morti nello scontro furono i primi caduti della guerra d'indipendenza americana.
Questi sviluppi determinarono, da parte dei coloni la costituzione di un
esercito che venne posto sotto il comando di George Washington, nel 1776, quando
a Philadelphia si riunirono i rappresentanti delle colonie, che costituirono un
parlamento (il Congresso). La guerra d’Indipendenza americana (1776-83) si presentava assai difficile per Washington. Il governo inglese disponeva di forti contingenti di truppe regolari, spesso formate da mercenari tedeschi, bene equipaggiati e appoggiati da una potente flotta. Il Congresso aveva reclutato un esercito continentale, che tuttavia si riduceva a poche migliaia di volontari, male armati e peggio equipaggiati, arruolato con ferme così brevi da minacciare continuamente a Washington di rimanere senza soldati. V’era inoltre la milizia locale dei singoli stati, che interveniva solo occasionalmente nella guerra, prendendo le armi per pochi giorni e sciogliendosi subito dopo, perché ognuno potesse tornare al proprio campo. Solo l’indomita energia e il prestigio personale di Washington poterono consentire a quella parvenza di esercito di tenere il campo durante lunghi anni. Con il trattato di Parigi (3 settembre 1783) l’Inghilterra riconobbe l’indipendenza degli Stati Uniti e restituì alla Spagna la Florida; conservò invece il Canada, i cui abitanti erano rimasti estranei alla Rivoluzione. Nel 1787 a Filadelfia fu convocata una convenzione che elaborò la nuova costituzione e nel 1789 George Washington divenne il primo presidente degli Stati Uniti D'America.
La sproporzione fra i due contendenti era enorme: 22 milioni di abitanti e 990 mila soldati al nord, contro nove milioni di abitanti, di cui tre e mezzo schiavi, e 690 mila soldati al sud. L'elezione di Lincoln spinse il South Carolina a indire una convenzione per staccarsi dall'Unione. Georgia, Florida, Alabama, Mississippi e Louisiana fecero altrettanto e l'8 febbraio 1861 fu approvata la costituzione degli Stati confederati d'America, di cui fu eletto presidente Jefferson Davis. All'indomani della presa confederata di Fort Sumter (12-13 aprile 1861), che diede inizio alla guerra, altri quattro stati (Virginia, North Carolina, Tennessee e Arkansas) aderirono alla Confederazione, che fissò la capitale a Richmond, in Virginia. La Casa bianca assunse allora una posizione intransigente: il sud era uscito dall'Unione per non sottomettersi alla volontà della maggioranza. Come tali i "sudisti" erano ribelli, quindi con la forza delle armi sarebbero stati costretti a rientrare nell'Unione, la cui restaurazione costituiva l'unico scopo di guerra del governo centrale. Inizialmente non fu messa in discussione l'istituzione della schiavitù dei neri negli stati del sud, anche se da anni agiva nel nord un movimento abolizionista. Lo stesso Partito repubblicano di Lincoln durante la campagna elettorale aveva sconfessato l'abolizionismo. Ben tre dei principali stati schiavisti (Kentucky, Delaware e Maryland) si erano schierati con l'Unione, mentre il Missouri era ancora incerto. Ma il Partito repubblicano si era formalmente opposto a ogni espansione della schiavitù nei territori dell'ovest, per chiuderli ai contadini del sud e spalancarli a quelli del nord. Ciò avrebbe portato a una proliferazione di nuovi stati filonordisti, isolando il sud e privandolo di ogni influenza sul governo centrale. Il quadro delle posizioni mutò nel 1863. Il Proclama di emancipazione, dello stesso anno, maturò come misura di guerra civile: gli schiavi appartenenti a proprietari che al 1° gennaio 1863 si fossero trovati in stato di rivolta contro l'Unione, sarebbero stati dichiarati liberi senza indennità. Il principio dell'emancipazione, divenuto la bandiera del nord, fu successivamente trasformato in un emendamento alla costituzione che, tuttavia, negli stati fedeli all'Unione sarebbe entrato in vigore solo gradualmente. Il sud invocò il diritto all'autodecisione, il diritto cioè, per una minoranza conscia delle sue tradizioni, delle prerogative che ne fanno una nazione, a rivendicare in ogni momento la propria indipendenza. Scoppiate le ostilità, il generale Robert E. Lee, alla testa dei confederati (Unione = Nord, nordisti -- Confederazione = Sud, sudisti), conseguì iniziali vittorie a est, ma venne fermato dal generale George B. McClellan al comando dell'armata dell'Unione ad Antietam Creek (Sharpsburg) il 17 settembre 1862. Dopo aver tentato invano di entrare nel Maryland settentrionale, Lee invase la Pennsylvania meridionale attraversando la valle dello Shenandoah, ma fu bloccato dal generale George G. Mead a Gettysburg (1-3 luglio 1863). Questa nuova sconfitta capovolse le sorti della guerra. Anche a ovest gli eserciti dell'Unione ottenevano significativi successi. Il generale Ulysses Grant vinse la battaglia di Shiloh (6-7 aprile 1862) nel Tennessee, e l'anno seguente (1863) prevalse a Vicksburg e a Chattanooga, rispettivamente sui fiumi Mississippi e Tennessee. Nell'aprile del 1862 la flotta dell'Unione, al comando dell'ammiraglio David G. Farragut (1801-1870), conquistò il porto di New Orleans, acquisendo il controllo della parte meridionale del fiume Mississippi e poi dell'intero corso.
Nel 1864 Grant, nominato comandante in capo dell'Unione, tra maggio e giugno spinse i confederati verso sud, in direzione di Richmond; mentre William T. Sherman avanzò in direzione est raggiungendo Atlanta, che mise a ferro e fuoco, e quindi procedette alla volta di Savannah in un'inarrestabile marcia verso il mare allo scopo di tagliare a metà il sud. Presa Savannah (21 dicembre 1864), Sherman si ricongiunse, verso nord, al generale Grant. Richmond cadde nelle mani dell'Unione. Le ultime forze confederate, accerchiate in Virginia dagli eserciti dell'Unione, si arresero ad Appomattox il 9 aprile 1865. Pochi mesi dopo, il 18 dicembre 1865, venne approvato il tredicesimo emendamento alla Costituzione americana che aboliva definitivamente la schiavitù. Scoppiata per costringere il sud a sottomettersi e a rientrare nell'Unione, la guerra civile ridusse tutto il sud a un campo di cenere e provocò complessivamente circa 600 mila morti e 400 mila feriti. Le novità del conflitto, per molti aspetti definibile guerra totale, con ricorso sistematico a tecnologie e metodi organizzativi modernissimi, furono apprezzate solo in parte dai contemporanei. Viceversa molti vi colsero immediatamente tutta la gravità degli esiti sociali, al nord come al sud. La Ricostruzione del sud durò circa dieci anni e gli undici stati secessionisti furono riammessi separatamente nell'Unione: l'ultimo, l'Alabama, nel 1871. Il sud emerse dalle conseguenze devastatrici della guerra civile con tre aspetti che conservò per decenni: monopolio politico del Partito democratico, persistenza della segregazione razziale, arretratezza economica e civile. Contemporaneamente, la guerra civile contribuì a rinsaldare il primato del nord e a forgiare un'America nuova: aprì la strada alla rivoluzione industriale; unificò tutto il paese sotto il controllo del governo centrale; modificò l'economia e diede alle imprese uno slancio inedito; risolse il problema dei territori dell'ovest spalancandoli all'immigrazione dei piccoli contadini del nord e dei coloni europei, gettando così le basi per il sorgere di nuovi stati. La crescita degli Stati Uniti fu inarrestabile e ininterrotta. Ad un certo punto il primato mondiale inglese dovette cedere il passo. La costruzione della ferrovia che negli anni sessanta giunse a collegare l'intero continente fu una spinta poderosa all'industrializzazione perché mise in moto un processo a catena di crescita impetuosa di tutti i settori ad essa collegati. L'emigrazione assunse dimensioni gigantesche: milioni di Europei si riversarono in America in cerca di lavoro e di una nuova vita. Nel 1900 la popolazione raggiunse i 75 milioni. Rappresentava un mercato di consumatori senza pari nel mondo, che assicurava all'industria nazionale una domanda inesauribile.
Fu un piccolo aristocratico di provincia, Iyeyasu, della famiglia Tokugawa, che unificò definitivamente il Giappone,
schiacciando i daimyo (feudatari giapponesi) dissidenti nella battaglia di
Sekigahara (1600) e che, proclamandosi shogun, fondò una casata destinata a
governare il Giappone per due secoli e mezzo. Egli si fece conferire dall'imperatore il titolo ereditario di shogun (1603) e stabilì la sede del suo governo a Yedo (l'odierna Tokyo). Ridusse tutti i daimyo sotto il suo controllo attraverso una fitta rete di spie, costringendo i parenti prossimi dei daimyo a vivere alla sua corte quali ostaggi e gli stessi daimyo a risiedervi periodicamente. La stessa corte imperiale fu sottoposta alla sorveglianza costante dei funzionari shogunali delegati a Kyoto. Per quanto riguarda la politica estera, poiché durante le guerre tra signori feudali (daimyo) essi si rifornivano di armi in Europa, lo shogun vietò il commercio con l'estero, Iyeyasu e i suoi successori fecero di tutto per isolare il Giappone dal resto del mondo; a partire dal 1624 decreti di espulsione colpirono gli stranieri e solo pochi mercanti cinesi e olandesi confinati nell'isola di Deshima, in prossimità di Nagasaki, furono ammessi a commerciare nel 1640 attraverso funzionari shogunali in veste di intermediari. Fu vietato ai Giapponesi di espatriare sotto pena di morte (1633) e il tonnellaggio delle navi mercantili fu limitato così da rendere impossibile la navigazione oceanica (1637). Naturalmente i primi a soffrire di questa politica di isolamento furono i missionari e gli indigeni convertiti. Nel 1637 scoppiò nella penisola di Shimabara una rivolta tra la popolazione giapponese convertita al cristianesimo che terminò con lo sterminio di 37.000 insorti. Da questo momento il cristianesimo cessò di esistere in Giappone come religione organizzata. L'epoca Tokugawa, culminata nel periodo Genroku (1687-1709), fu caratterizzata dalla rapida ascesa della borghesia cittadina, mentre diminuiva in proporzione l'influenza della vecchia casta dirigente dei daimyo, legata a un'economia agricola. La situazione dei contadini, che costituivano la principale classe produttiva, restò per tutto questo periodo critica e lo stesso shogun dovette ripetutamente intervenire per domare talune rivolte nelle campagne, assai violente. Nel corso del XIX secolo si svilupparono le contraddizioni interne che resero possibile la trasformazione del Giappone in uno Stato moderno e l'abolizione del dualismo di imperatore e shogun. A partire dal XVII secolo si era formato intorno ai potenti capi dei clan meridionali e occidentali un movimento di opinione favorevole alla restaurazione dell'autorità imperiale, e questi capi, d'altra parte, manifestavano un costante interesse per le arti e la tecnologia occidentali. A partire dal 1825 le potenze occidentali esercitarono sul Giappone la loro crescente pressione: esse chiedevano in particolare un trattamento umano per i loro naufraghi, la concessione di stazioni carbonifere nei porti giapponesi e la libertà di operare sul suolo dell'arcipelago per i loro mercanti e per i loro missionari. La prima mossa in questo senso ebbe luogo nel 1853, quando il comandante americano Matthew Perry, violando i divieti, entrò con le sue navi nella baia di Yedo (Tokyo) e l'anno successivo impose al governo dello shogun una convenzione relativa ai naufraghi e l'apertura di due porti per il rifornimento delle navi americane. Nel 1856 giunse a Yedo il primo ambasciatore americano, Townsend Harris, che ottenne la firma di un trattato commerciale (29 luglio 1858) sul quale si modellarono nei mesi seguenti analoghi trattati stipulati da Olandesi, Russi, Inglesi e Francesi.
Tali trattati aprirono il Giappone alle
relazioni politiche, culturali e commerciali con l'Occidente, provocando
un'immediata reazione da parte dei nemici del regime shogunale. Questi si
abbandonarono, nel nome dell'imperatore, a una serie di atti di violenza contro
i residenti stranieri (dodici dei quali furono assassinati tra il 1859 e il
1862) e nel 1863 bombardarono le loro navi a Shimonoseki, il che provocò
rappresaglie immediate da parte delle potenze. Di fronte ai mezzi militari degli
Occidentali, l'impotenza del governo shogunale divenne palese agli occhi dei
suoi stessi seguaci: il 9 novembre 1867 Yoshinobu, ultimo degli shogun Tokugawa,
si piegò senza tentar di resistere e rimise tutti i poteri all'imperatore
Mutsuhito (Meiji) allora quindicenne. 1. il trasferimento dell'imperatore nell'antica capitale shogunale di Yedo ribattezzata in quell'occasione Tokyo ("capitale dell'Est", per distinguerla da Kyoto, l'antica capitale imperiale); 2. l'emanazione di un rescritto imperiale (6 aprile 1868) che preannunciava l'abolizione del feudalesimo, la modernizzazione economica e amministrativa del paese e la creazione di assemblee consultive destinate a rappresentare la pubblica opinione. Nella realtà, la modernizzazione economica del Giappone, incredibilmente rapida, provocò il sacrificio inevitabile delle istituzioni liberali preannunciate con questo rescritto. Fu un gruppo relativamente ristretto di uomini energici - giovani samurai, nobili della corte di Kyoto, ex funzionari shogunali - già esperti nell'esercizio del potere e penetrati del sentimento della grandezza nazionale, a prendere in mano i destini del Giappone dopo il 1868, esercitando sullo svolgersi degli eventi un'influenza certamente molto maggiore di quella dello stesso imperatore Mutsuhito (Meiji). Tra il 1869 e il 1878 i riformatori Kido, Okubo, Goto e Iwakura abolirono due istituzioni caratteristiche del Giappone feudale: il governo provinciale dei daimyo e la suddivisione della società in classi rigidamente distinte. Le prime vittime di questi provvedimenti furono i samurai, privati dei loro, sia pur ridotti, mezzi di sostentamento. Nel febbraio 1877 il malcontento dei samurai scoppiò nella rivolta di Satsuma, guidata da Saigo Takamori, un riformatore "pentito". Occorsero otto mesi di lotta per domare la rivolta, ma alla fine la vittoria del nuovo esercito nazionale reclutato per mezzo della coscrizione ebbe un enorme effetto in tutto il Giappone fornendo la prova della totale supremazia del governo centrale. In politica interna il Giappone parve seguire l'esempio dell'occidente dandosi una costituzione (11 febbraio 1889) ed eleggendo l'anno seguente una dieta; ma l'adozione di un sistema parlamentare fu lungi dal produrre istituzioni veramente liberali e lo Stato giapponese restò una monarchia assoluta, appoggiata a un'alta burocrazia i cui quadri erano per lo più costituiti da ex samurai acquisiti ai programmi di riforma. La modernizzazione economica fu invece straordinariamente rapida; in dieci anni (1870-1880) le associazioni di mercanti e banchieri note con il nome di zaibatsu realizzarono la concentrazione del capitale, procedettero all'elettrificazione dell'arcipelago e lo dotarono di una rete ferroviaria, mentre venivano edificate le grandi industrie metallurgiche, tessili e minerarie. Occorre aggiungere che scopo principale della creazione di queste industrie era quello di fornire al più presto all'esercito e alla marina giapponesi i mezzi per resistere a qualsiasi aggressore anche occidentale; i beni di consumo correnti continuarono invece a essere prodotti con i sistemi artigianali tradizionali.
Sul piano amministrativo, prendendo spunto dalla Francia, si divise in distretti
a capo dei quali venne posto un funzionario. Venne inserita l'istruzione
obbligatoria (accolta con ostilità poiché cancellava lo sfruttamento minorile).
Sul piano bellico lo spunto era quello prussiano: fu introdotta la leva
obbligatoria per tre anni. Fu creato anche un moderno sistema bancario basato
sullo yen e si sviluppò l'industria tessile, principale esportatrice, finanziata
da privati mentre quella siderurgica e navale fu finanziata dallo Stato anche se
poi molte di queste industrie furono vendute a enti privati. Fu inoltre vietata
ogni forma di organizzazione operaia e il partito socialdemocratico sorto nel
1901 fu sciolto. nell'ultimo decennio del secolo il divario tecnologico tra Cina e Giappone era enorme: il Giappone si concentrò sulla Manciuria e sulla Corea, territori ricchi di ferro, carbone e produzione agricola. Questi territori erano però oggetto d'interesse anche della Russia, che si concentrò su Port Arthur, base navale in Manciuria. In Cina la sempre maggiore influenza occidentale portò nel 1900 a una rivolta popolare xenofoba, nota come il movimento dei Boxer: essa vide il massacro di molti missionari e civili convertiti al cristianesimo; tutto ciò che era occidentale venne rifiutato. Questa rivolta ebbe come conseguenza, dopo il ritorno dell'ordine, che l'economia cinese passò totalmente nelle mani degli occidentali. La Russia ne approfittò per occupare Port Arthur e dichiarare la Manciuria sua zona d'influenza. A questo atto si contrappose il Giappone che nel 1904/05 attaccò le truppe russe e le sconfisse sia per terra che per mare: questa guerra è considerata una prova della prima guerra mondiale in quanto vide l'uso degli armamenti che saranno utilizzati nel conflitto mondiale come cannoni, esplosivi, incrociatori e corazzate d'acciaio e sottomarini. Dopo la pace nel 1905 il Giappone ottenne Port Arthur.
Agli inizi dell'ottocento la politica coloniale europea sembrava aver raggiunto
una certa stabilità. L'Inghilterra conservava il dominio di vaste aree del mondo
da cui ricavava le materie prime alla base del suo predominio economico
mondiale. Negli anni venti e trenta l'Inghilterra iniziò una maggiore
penetrazione nell'Africa del Sud, nel Golfo di Guinea, nel Corno d'Africa, a Ceylon, in Birmania e in Australia. La Francia a suo volta era impegnata nella
costruzione di un impero quasi altrettanto imponente: concentrò la sua
attenzione su Sudest asiatico e sul Mediterraneo Meridionale, in particolare
sull'Algeria, la Tunisia, e sulle parti del continente africano non ancora
conquistate dall'Inghilterra: Senegal, Costa d'Avorio.
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