Ottone I, imperatore tedesco, poté condurre un'azione efficace per la difesa e
l'espansione del regno.
Domata una rivolta in Lorena con l'aiuto del fratello Brunone, arcivescovo di Colonia, che svolse opera di pacificazione, il sovrano
riuscì ad imporre la sua supremazia sul ducato slavo di Boemia (950), che fu
successivamente incorporato nel regno germanico.
Qualche anno dopo, Ottone
riportò una notevole vittoria sugli Ungari a Lechfeld (955), ponendo così
termine alle periodiche incursioni in Germania e in Italia. Da quel momento gli Ungari diedero inizio alla edificazione di un nuovo regno e cominciarono a
convertirsi al cristianesimo, per opera di evangelizzatori tedeschi e,
soprattutto, slavi.
Contro eventuali ritorni aggressivi di quelle popolazioni fu
ricostituita la marca di Austria, già creata da Carlo Magno.
Più difficile fu la
penetrazione nel territorio tra la Germania e la Polonia, occupato da numerose
tribù slave (Oloriti, Liutizi, Sorbi), che impegnarono i re germanici in lunghe
campagne militari, con risultati parziali e spesso non definitivi. Progressi di
un certo rilievo furono realizzati con la costruzione di una serie di fortezze
e, nel 962, con l'impianto di una vasta organizzazione religiosa, che faceva
capo all'arcivescovado di Magdeburgo.
La popolazione tedesca non era, tuttavia,
così numerosa da rendere possibile una vasta e duratura opera di colonizzazione
e nel 983 una grande rivolta ai confini orientali mise in
pericolo le conquiste
realizzate.
I successori di Ottone I dovettero riprendere e proseguire per lungo tempo la
lotta per sottomettere le tribù slave e incorporarne stabilmente i territori
nell'impero.
Impegnato in Oriente e in Occidente (dove intervenne anche nelle contese
dinastiche francesi), in stretta collaborazione con la Chiesa tedesca (che, pur
essendo subordinata allo Stato, non cessava di essere parte della Chiesa
universale con il suo centro a Roma) Ottone aveva delineato ed attuato un
disegno politico in cui concretamente si riaffermavano le tradizioni imperiali.
Una componente importante di questo disegno era l'interesse per l'Italia e per
il papato, poiché alla corona d'Italia ed alla consacrazione del papa era legata
non solo formalmente, ma anche per la sua natura cristiana ed universalistica,
l'autorità imperiale.
Ottone aiutò dapprima Berengario II a conquistare, contro Ugo di Provenza e suo
figlio Lotario, la corona d'Italia (950).
La protezione durò poco tempo, poiché l'anno successivo un tipico dramma
medievale creato dalle preoccupazioni e dalle ambizioni di Berengario provocò un
diretto intervento di Ottone.
Berengario cercò di imporre alla vedova di
Lotario, Adelaide, un matrimonio vantaggioso con il figlio Adalberto che aveva
associato al trono. Egli intendeva così allontanare la minaccia di
rivendicazioni da parte della famiglia di Lotario e rafforzare la sua posizione
politica.
Adelaide, che reclamava il trono del marito col sostegno di un forte gruppo di
nobili, si rivolse allora ad Ottone. Questi accolse l'appello e, venuto in
Italia, entrò a Pavia, dove fu proclamato re d'Italia, ma non poté portare a
compimento l'impresa perché la situazione interna della Germania lo costrinse a
tornare in patria lasciando ancora a Berengario l'esercizio del potere regio.
Tornò in Italia dieci anni dopo, chiamato dal papa Giovanni XII:
in questa occasione ricevette la corona imperiale (2 febbraio 962) e, dopo avere
sconfitto e fatto prigioniero Berengario, aggregò il regno d'Italia alla
Germania. Come già si è detto, egli stabilì allora, per
l'elezione del pontefice, delle norme (giuramento di fedeltà da parte del papa, conferma da parte dell'imperatore) che
praticamente mettevano il papato sotto la diretta e rigorosa tutela imperiale.
Di questi poteri Ottone si servì subito per deporre lo stesso Giovanni XII e
fare eleggere Leone VIII.
Una nuova iniziativa di Ottone in Italia fu determinata, nel 966, da contrasti
tra la nobiltà e il pontefice.
In questa occasione egli tentò anche di estendere
il proprio dominio sull'Italia meridionale, con una spedizione militare che
giunse fino in Puglia ed in Calabria. Frutto di questa spedizione fu il
riconoscimento della sua autorità sui duchi di Benevento e di Capua, che
dovettero dichiararsi suoi vassalli.
Questo successo suscitò, d'altra parte, l'ostilità dei Bizantini, restii a
riconoscere significato all'impero del « barbaro » Ottone e, soprattutto,
preoccupati per i possessi dell'Italia meridionale. Ottone superò questa
ostilità con trattative, che gli valsero il riconoscimento del titolo imperiale
da parte dell'imperatore d'Oriente (972) ed il consenso alle nozze tra suo
figlio e la principessa bizantina Teofane (973).
L'impero creato da Ottone, seppure idealmente universale per il suo carattere
cristiano e per il richiamo alla tradizione romana, aveva le sue basi reali in
una entità nazionale ed era, in pratica, un impero germanico. La politica del
primo imperatore sassone fu, in effetti, solidamente ancorata a questa realtà,
quasi che il titolo imperiale, più che alimentare propositi universalistici,
servisse a rafforzare la struttura della compagine politica germanica.
Diverso fu l'atteggiamento dei suoi successori.
Ottone II fu impegnato soprattutto a superare la crisi aperta dalla morte del
padre, avvenuta nel 973, ed a rivendicare le terre che erano state promesse in
dote a Teofane. Si spinse, in questo tentativo, fino in Calabria, dove ricevette
una grave sconfitta, a Stilo, per opera dei musulmani.
Ottone III aveva tre anni alla morte del padre. Nutrito di ideali
universalistici dalla madre e dal maestro Gerberto d'Aurillac, egli giunse
all'esercizio effettivo del potere a diciannove anni, nel 996, con un
orientamento politico-ideale che lo allontanava dalla linea nazionale germanica
dei suoi avi e lo spingeva verso prospettive assai meno sicure e concrete. Il
suo programma di restaurazione dell'antico impero universale di Roma (renovatio
imperii) si accompagnava a idee mistiche e ascetiche, assimilate attraverso i
contatti con san Romualdo e san Nilo, per la suggestione dei quali egli
assegnava obiettivi religiosi alla sua missione imperiale.
Si trasferì quindi a
Roma, dove elesse al pontificato dapprima un suo cugino, col nome di Gregorio V
(996-999) e poi il suo ex precettore Gerberto d'Aurillac (Silvestro Il,
999-1003).
In questo modo, però, perdette i legami con la sua terra, suscitando
forti risentimenti nazionali per il fatto che la Germania perdeva così la sua
egemonia nell'ambito dell'impero; mentre, d'altra parte, non trovò a Roma un
ambiente favorevole ai suoi progetti.
Questa situazione di debolezza politica fu
propizia al riaccendersi di turbolenze aristocratiche che esplosero a Roma
ripetutamente finché, nel 1001, Ottone III dovette abbandonare la città insieme
a Silvestro II.
Morì poco dopo, nel 1002, per malattia, all'età di ventidue
anni.
Evoluzione del sistema feudale.
Enrico II (1002-1024) in seguito alla morte del cugino Ottone III, venne eletto
re di Germania a Magonza.
Nominò suo cancelliere Alberico, vescovo di Como.
Durante il suo regno e quello del suo successore Corrado II il Salico, della dinastia di Franconia (1024-1039),
si riaccese l'offensiva della grande feudalità laica italiana, con la
rivolta di Arduino d'Ivrea, il rafforzamento degli Stati ad est della Germania
(regno di Ungheria, sotto Stefano il Santo, e Polonia, sotto Boleslao il
Valente), l'annessione della Borgogna e l'esplosione, all'interno della classe
feudale, di contrasti che non consistevano più nelle rivalità tra singoli
signori ma nella contrapposizione tra interi settori della feudalità.
Il movimento di trasformazione interna del sistema feudale, pur interessando
tutto l'Occidente europeo, ebbe come epicentro l'Italia settentrionale.
Qui i
valvassori (vassalli dei baroni) cominciarono a reclamare lo stesso diritto
all'ereditarietà dei loro feudi che i grandi feudatari avevano conquistato già
nel IX secolo. Il contrasto diventò guerra aperta quando i valvassori di Milano
si unirono con giuramento e sconfissero l'esercito dei grandi signori (capitanei)
a Campomalo.
In quell'occasione la grande aristocrazia laica e quella
ecclesiastica, rappresentata dall'arcivescovo di Milano, Ariberto d'Intimiano,
avevano superato i motivi di dissidio e si erano unite contro i valvassori.
L'imperatore Corrado II, richiamato in Italia da queste agitazioni, si schierò a
favore dei piccoli feudatari, emanando una legge (Constitutio de feudis, 1037)
con la quale le loro richieste furono pienamente accolte.
La decisione di Corrado corrispondeva all'interesse della monarchia di abbassare
la potenza della grande feudalità e di fare partecipare pienamente al potere
politico forze nuove che si erano sviluppate all'interno del sistema.
Questa fu una naturale evoluzione della politica favorevole
alla feudalità ecclesiastica, dal momento che anche questa non manteneva più
l'iniziale subordinazione nei confronti del sovrano.
Già prima di fissare con
una legge questo atteggiamento, Corrado aveva favorito di fatto in Germania la
trasformazione dei piccoli feudi in patrimoni familiari. D'altra parte,
indipendentemente dalle iniziative e dai programmi politici, in tutto l'ambito
della società feudale vi era una chiara tendenza in questa direzione: in
Francia, dove mancava un forte potere centrale, e in Germania, dove la
situazione era relativamente diversa, la piccola feudalità aveva conseguito
concreti vantaggi all'interno delle grandi signorie, già prima che la Constitutio ne accogliesse ufficialmente le aspirazioni.
Col mutamento dei rapporti tra i valvassori e i feudatari maggiori il sistema
feudale acquistava maggiore dinamismo interno, diventava più articolato, anche
se, una volta ottenuto il riconoscimento delle proprie rivendicazioni,
l'aristocrazia minore tendeva a far causa comune con i grandi baroni ed a
cooperare per il contenimento della pressione imperiale.
Un nuovo fattore di
mutamento della struttura politica emergeva intanto ai margini di questi
contrasti: a Milano, infatti, cominciava allora ad apparire, come forza
organizzata, il popolo della città che, sotto la guida di Lanzone della Corte,
prese parte alla lotta, dapprima a sostegno dell'arcivescovo Ariberto contro
Corrado e, successivamente, ribellandosi contro Ariberto e cacciandolo dalla
città. Il successore di Corrado, Enrico III, intervenne anche questa volta. La
questione fu risolta dai contendenti con un accordo che prevedeva la
partecipazione dei popolani, insieme ai nobili, al governo della città. La
presenza politica di un ceto di cives e l'affermarsi di una autonoma
organizzazione popolare preludevano già al sorgere di una nuova ed importante
realtà politica, il Comune.
La cavalleria.
Verso la fine di questo periodo (XI secolo) mentre un movimento di risveglio
percorre, come vedremo, la società occidentale, prende consistenza ed acquista
caratteri nuovi un istituto che ha grande importanza nella vita pratica e nella
mentalità degli uomini
del Medioevo: la cavalleria.
È difficile indicare la sua origine.
Si è ritenuto,
in genere, che a formarla siano stati i cadetti (figli non primogeniti) esclusi
dalla successione feudale e quindi spinti a procacciarsi al di fuori del feudo
familiare gloria e denaro.
Qualunque sia l'origine, la cavalleria ci appare come
una sorta di corporazione di guerrieri professionali; una corporazione i cui
membri avevano la facoltà di creare altri cavalieri, che avessero i requisiti
della nobiltà e della destrezza nelle armi. I cavalieri avevano un rapporto di
subordinazione più o meno vaga alle autorità supreme: teoricamente, avrebbero
dovuto operare in nome del re o dell'imperatore.
Le « chansons de gestes » e i «
romanzi » medievali hanno molto idealizzato, insistendo soprattutto sul concetto
della fedeltà al sovrano, la figura del cavaliere e la sua personale
inclinazione al bene operare. Forse l'idealizzazione del cavaliere fedele
nasceva proprio dalla necessità di presentare un modello di correttezza, di
obbedienza al sovrano ecc., ad un mondo feudale che tendeva invece ad allentare
certi legami, a disgregarsi in una serie innumerevoli di «piccoli regni ».
Più
vicina alla realtà è l'immagine di un guerriero inserito nel sistema feudale e
nella società di quel periodo proprio ed esclusivamente per le sue capacità di
combattente, fedele e leale quanto le condizioni generali lo consentivano, e
pronto a sfruttare le occasioni che le liti e le guerre offrivano in abbondanza
nel X e XI secolo.
A questo dilagare della violenza — che è anche, oltre la guerra, violenza
privata, fonte di continua tensione, di pericoli e di disordine che investono la
vita quotidiana e rendono incerta la fatica del contadino, insicura la strada
del mercante, difficile la vita ai deboli ed agli indifesi — la Chiesa reagisce,
facendosi interprete della generale aspirazione alla pace ed alla sicurezza. La
minaccia del castigo divino, l'appello alla fraternità degli uomini sono le armi
di cui l'organismo ecclesiastico si serve per arginare la furia distruttiva che
pervade la società feudale: in parte vi riesce, ponendo sotto salvaguardia
determinati beni e comunità, facendo accettare, in certi periodi, la « tregua di
Dio », creando delle associazioni di pace e infine trasformando la massa dei
cavalieri, molti dei quali sono diventati dei veri e propri briganti, in una
organizzazione regolata da un insieme di norme, ispirate in parte alla
religiosità cristiana. Responsabilità e doveri nuovi appartengono ora a colui
che, con una solenne cerimonia, diventa cavaliere: la forza si sposa alla
gentilezza, allo spirito umanitario, alla difesa dei deboli, ad una fede
religiosa che non esclude lo spirito di avventura, ma lo inserisce nel gran moto
di riscossa cristiana che nella seconda metà dell'XI secolo pervade la società
occidentale, proiettandola verso l'esterno, verso il mondo degli infedeli. E'
impossibile, infatti, estirpare dal mondo feudale la mentalità guerresca che ad
esso è connaturata. La Chiesa la orienta verso valori religiosi e morali: si
elabora così il concetto della « guerra santa », che diventerà ad un certo
momento la suprema aspirazione e la principale attività della cavalleria.
Cresce la popolazione
Per quanto le variazioni demografiche in età alto-medievale siano difficilmente
quantificabili, non c'è dubbio che l'Europa occidentale manifestò i primi segni
di ripresa concreta nel X secolo e, a partire dal Mille, vide letteralmente
moltiplicarsi il numero dei suoi abitanti.
Segnali evidenti di un tale fenomeno sono l'ampliamento dello spazio coltivato
grazie a grandi opere di disboscamento e bonifica di terre, lo sviluppo delle
città, la fondazione di un gran numero di nuovi centri abitati. I documenti
riguardanti le famiglie nobili mostrano una tendenza all'aumento del numero dei
figli per ogni matrimonio passando di generazione in generazione, mentre gli
studi condotti sugli scheletri degli uomini e delle donne del tempo, portati
alla luce nel corso degli scavi archeologici, fanno pensare che la gente vivesse
in media più a lungo.
L'unico paese per il quale disponiamo di dati precisi è l'Inghilterra, in quanto
nel 1086, per ordine di Guglielmo il Conquistatore, fu redatto il Domesday book
(Libro del Giorno del Giudizio), un censimento fiscale di tutti gli abitanti del
Regno. Gli Inglesi risultarono essere allora circa un milione e centomila e dal
confronto con nuovi censimenti effettuati nel XIV secolo possiamo rilevare che
dopo due secoli la popolazione risultava più che triplicata.
Le trasformazioni dei paesaggi
Dopo il Mille il paesaggio europeo andava gradualmente trasformandosi: grandi
estensioni di campi coltivati strappati alla foresta o alle acque, ovunque
migliaia di nuovi villaggi, sempre più numerose le grandi aziende agrarie create
dai monaci.
Nelle campagne di alcune regioni ebbe inizio la costruzione di casolari isolati,
prima del tutto inesistenti a causa della minaccia costante del brigantaggio e
delle razzie. Nei fondovalle, invece, dove si incrociavano antiche strade e
nuovi sentieri, e dove era più facile l'attraversamento di eventuali torrenti e
fiumi, crescevano nuclei abitati da artigiani e mercanti, che si contrapponevano
ai castelli dei signori feudali situati sulle alture e sui monti circostanti.
Attorno alle città che si andavano via via costituendo, si diffondevano vigneti,
frutteti e orti concimati e lavorati con particolare cura, in modo da poter
fornire ogni giorno diversi prodotti al mercato urbano. Inoltre i boschi, a
causa dell'avanzare dei campi, non apparivano più come luoghi orridi e selvaggi,
ma come un mondo verde da tenere pulito, sfoltendolo, eliminando gli sterpi
secchi e spinosi, tagliando le piante cedue per rinforzarne le radici.
Un po' alla volta gli uomini avevano ripreso a spostarsi. Viaggiavano pellegrini
diretti verso i principali luoghi di culto, contadini che si trasferivano in
città con la speranza di migliori condizioni di vita, mercanti che si recavano
alle fiere, monaci itineranti che vagavano tra un monastero e l'altro e studiosi
che erano attirati dai più famosi centri di cultura.
Aumenta la produzione agricola, vengono colonizzati nuovi territori.
All'incremento della popolazione si accompagnò un sensibile sviluppo della
produzione agricola.
Vennero dissodati e messi a coltura terreni precedentemente occupati da foreste,
sterpaglie e acquitrini che arretrarono praticamente dovunque, dall'Inghilterra
all'Italia appenninica, dalla Francia alla Germania orientale e alle coste del
Baltico.
Nella pianura padana si cominciò ad arginare il Po e i suoi affluenti; venne
iniziata la costruzione di una fitta rete di canali irrigui; furono realizzati i
primi prati a marcita, cioè irrigati in permanenza in modo da consentire al
foraggio, protetto dall'acqua a temperatura costante (circa 10°C) dei fontanili,
di crescere anche nei mesi invernali. In alcune zone della Spagna gli Arabi
crearono un efficiente sistema di irrigazione; nelle Fiandre, intorno al 1100,
gli Olandesi cominciarono a «strappare» terre al mare, innalzando dighe,
drenando il suolo, desalinizzando le acque.
La messa a coltura di nuovi terreni fu spesso promossa dagli stessi signori
feudali per accrescere le rendite.
Essi garantivano infatti ai contadini
disposti a insediarsi nelle zone disabitate speciali carte di libertà, le
cosiddette franchigie, che rendevano meno gravose le corvées e prevedevano
l'esenzione dai tributi e dal servizio militare.
Villanuova, Castelnuovo,
Francavilla, Borgofranco, Castelfranco, sono toponimi frequenti tra i centri
abitati nati in questo periodo, che nel nome ricordano l'origine recente o
l'esenzione fiscale che veniva concessa ai coloni per favorirne il popolamento
(«franco», significa infatti «libero», «esente da tassazione»). Querceto,
Frassineto, Ronco, ecc. richiamano invece l'opera di disboscamento che aveva
permesso di strappare all'incolto le terre coltivabili, a presidio delle quali
erano sorti i nuovi villaggi.
Un ruolo importante nell'opera di colonizzazione lo ebbero anche gli enti
ecclesiastici e in particolare i nuovi ordini monastici, come i certosini e i
cistercensi. I monaci di tali ordini infatti, animati dallo spirito di riforma
della vita religiosa e desiderosi di restituire la regola benedettina
all'originaria purezza, eleggevano a loro dimora luoghi solitari e selvaggi, nel
cuore delle foreste e in territori impervi, che poi faticosamente dissodavano e
coltivavano per provvedere al proprio sostentamento.
Migliorano le pratiche agrarie e l'attrezzatura dei contadini
Il risveglio demografico ed economico dell'Occidente fu favorito anche dal
perfezionamento degli strumenti e delle tecniche di coltivazione. Al
tradizionale aratro leggero di legno, tipico dell'area mediterranea, si affiancò
l'aratro pesante, ben più efficace sui suoli umidi dell'Europa
centro-settentrionale dove permetteva arature più profonde. Questo aratro era
munito di due ruote, di un coltro, la lama verticale che incideva a fondo il
terreno, e di un versoio, che rivoltava le zolle. L'introduzione dell'aratro a
ruote richiese maggiori prestazioni alla forza animale, e questo fu possibile
attaccando una o più coppie di buoi al timone o mediante il giogo frontale di
legno.
Insieme all'aratro pesante apparvero altre innovazioni tecniche. L'erpice di
ferro, che serviva a frantumare le zolle; il collare di spalla per il cavallo e
il bue, un aggiogamento rigido e imbottito che consentiva agli animali sia di
respirare liberamente, a differenza della vecchia bardatura che li stringeva
alla gola, sia di scaricare lo sforzo su tutto il corpo aumentando notevolmente
l'efficacia del traino; la ferratura dei cavalli, che ne rese più sicuro il
passo sui terreni sassosi e irregolari e impediva che lo zoccolo si usurasse con
il tempo.
Un'altra importante innovazione fu la diffusione della rotazione triennale delle
colture, in luogo della tradizionale rotazione biennale. Con il nuovo sistema il
terreno veniva diviso in tre parti: sulla prima si seminavano cereali invernali
(frumento, segale, farro, miglio); sulla seconda cereali primaverili (orzo e
avena), oppure legumi e piselli; la terza invece era lasciata a maggese, vale a
dire a riposo. Così la superficie utilizzata annualmente passò dalla metà ai due
terzi; il pericolo delle carestie si ridusse, in quanto un cattivo raccolto
primaverile poteva essere compensato da un buon raccolto estivo, mentre i legumi
rappresentavano una ulteriore fonte di vitamine e proteine vegetali.
Il mulino ad acqua
Il nuovo slancio produttivo dopo il Mille è attestato anche dalla rapida
diffusione del mulino ad acqua in quasi tutte le regioni europee.
Il Domesday Book, cioè l'inventario delle proprietà inglesi voluto da Guglielmo
il Conquistatore per stabilire i tributi dei sudditi, enumera ben 5.624 mulini
in Inghilterra nell'anno 1086 (un mulino ogni 46 famiglie). Cifre non dissimili
possono essere immaginate per gli altri paesi del continente, dal momento che i
signori, padroni esclusivi dei mulini, realizzavano un duplice profitto dalla
loro installazione: un guadagno diretto derivante dalla macinazione del grano
dei contadini, costretti a servirsi, secondo l'usanza feudale, del mulino
signorile, e un guadagno indiretto, poiché potevano controllare meglio i
raccolti e quindi stabilire con esattezza i canoni a carico degli affittuari e
degli agricoltori dipendenti.
Il mulino ad acqua, utilizzando una fonte energetica abbondante in natura e a
costo zero, realizzava una produzione giornaliera che, secondo i calcoli degli
storici, era pari a quella di quaranta operai. Ben presto, grazie all'invenzione
dell'albero a camme che permise, tramite la trasformazione del moto rotatorio in
moto rettilineo, di azionare magli, cunei e mantici, il mulino entrò anche nel
ciclo delle lavorazioni artigiane; fu impiegato ad esempio per la follatura
della lana e la battitura dei metalli, due operazioni eseguite in precedenza a
mano con ritmi molto lenti e notevole fatica.
Il mulino a vento
Tra il XII e il XIII secolo si diffusero anche i mulini a vento, largamente
utilizzati dagli Arabi e da loro introdotti nell'Occidente cristiano. Essi
furono impiantati nei luoghi dove le correnti d'aria erano costanti, come in
Spagna e nei Paesi Bassi. Qui i mulini a vento si rivelarono indispensabili per
il drenaggio delle acque e la manutenzione del sistema di dighe e canali che si
andava sviluppando.
Il risveglio economico dopo il Mille e la rivolta contro il feudalesimo
Intorno al Mille incominciarono tra le popolazioni latino-germaniche quel
risveglio economico e quel rifiorimento culturale ed artistico, che portarono
enormi conseguenze in tutta la storia d'Europa.
Il risveglio economico nel secolo XI incomincia con una vera e propria
rivoluzione contro l'ordinamento feudale della società, ordinamento che non
corrisponde più alle nuove condizioni, create appunto da due secoli di
feudalesimo.
Prima causa del malessere generale fu l'aumento della popolazione rurale.
Questa, che al tempo delle invasioni barbariche si era molto diradata per la
poca sicurezza delle campagne, ora, durante due secoli di tranquillo e stabile
regime feudale si é moltiplicata, sia perché la prole numerosa é, nei tempi di
pace, la ricchezza del contadino, sia perché il signore impedisce ai servi della
gleba di uscire dal feudo, di cui essi con le loro braccia costituiscono la
maggiore risorsa. Così il feudatario ha creato inconsapevolmente una situazione
autolesionista: i confini del feudo sono divenuti troppo ristretti, i campi del
signore non bastano più a nutrire i suoi servi, i vecchi patti feudali non
possono più reggere di fronte ai nuovi bisogni. La società feudale é allora in
preda ad un'agitazione nervosa: c'é per tutta Europa la fame della terra.
Ed ecco l'attacco al latifondo feudale: si obbliga il signore a cedere una parte
delle sue terre, specialmente quelle rimaste incolte da secoli perché poco
fertili o bisognose di bonifica. Si escogitano ingegnosi sistemi di contratti
enfiteutici, i quali servono per coprire vere e proprie vendite di benefici
inalienabili; si occupano le terre di dubbio diritto, e specialmente i latifondi
ecclesiastici, quelli vescovili prima di tutti, che sono i più soggetti alle
vicende politiche.
Le nuove classi sociali
Nei terreni liberati dal dominio del signore appare la nuova classe dei
contadini liberi. Sono discendenti da antichi servi della gleba, che hanno
potuto sottrarsi alla servitù feudale e che coltivano un fondo proprio, oppure
terre, sulle quali il diritto del signore é appena nominale. Accanto ai nuovi
contadini liberi sta elevandosi un'altra classe importante, destinata a
succedere un giorno alla vecchia nobiltà decaduta: la borghesia.
Questa classe
era sempre esistita; essa si componeva degli abitanti dei borghi e delle città;
ma siccome nella economia feudale l'unica fonte di ricchezza era la terra, così
questa classe, che non ne possedeva e viveva di piccoli mestieri, non aveva
allora alcun peso nella società. Invece in questi tempi la borghesia trova la
sua redenzione nella rinascita delle industrie, provocata dall'aumento delle
popolazioni rustiche e dalla insufficienza dei piccoli mestieri (ministeria)
esercitati dai servi dell'età feudale. Sorge perciò tutta una nuova
organizzazione industriale, che si sviluppa fuori dell'ambiente feudale ed é
opera della borghesia.
La città e la nuova economia monetaria.
La sede più adatta alla rinascita delle industrie e al risveglio della vivace
attività borghese é naturalmente la città: questa si risolleva dalla decadenza
in cui l'aveva relegata
l'economia fondiaria del feudalesimo e riprende la sua
vera funzione di centro produttore e distributore. Come la nobiltà feudale ha
creato il castello, così la borghesia ora restaura, nella pienezza delle sue
tradizioni latine, la città.
Alla città dunque, come in altri tempi al castello, accorrono ora quanti dal
lavoro delle proprie braccia attendono una fuga dalla miseria; alla città
affluiscono i servi liberati dai gravami feudali, i figli dei primi contadini
arricchiti, gli audaci che hanno spezzato il ferreo confine del feudo; e tutti
si affollano nelle strette vie cittadine, costruiscono borghi al di fuori delle
porte, aprono botteghe, impiantano piccole aziende. E la città s'ingrandisce,
abbraccia con più ampie mura i borghi, apre nuove vie e nuove piazze, dove
formicola un movimento nuovo, non inceppato da alcuna angheria feudale, poiché,
come spesso si dice, "l'aria della città rende liberi."
Nella città, ridivenuta il centro dell'attività economica, si aprono i mercati,
ai quali convengono d'ogni parte non solo le plebi campagnole, ma anche i
mercanti di paesi lontani, specialmente quelli delle repubbliche marinare. Sono
essi che, trafficando con l'Oriente, maneggiano l'oro e lo riportano
all'impoverito Occidente; essi che comprano i prodotti campagnoli; essi che
vendono le stoffe arabe, gli avori bizantini, le spezierie orientali. E qui nel
mercato cittadino il danaro corre, poiché tutta la nuova attività si fonda
sull'economia monetaria. Diviene allora affannosa la ricerca del danaro; onde
verso il Mille si avverte in tutta l'Europa un risveglio nell'industria
mineraria, specialmente in Germania, dove esistono le più ricche miniere del
medioevo. Le piccole monetine d'argento, così rare nell'età carolingia,
cominciano a divenire più comuni e si diffondono come il mezzo più rapido negli
scambi, si insinuano nelle campagne, dove il contadino comincia ad apprezzarle
perché con esse farà i suoi acquisti in città; si inoltrano nei castelli, ambite
dal signore, il quale vede con angoscia il suo reddito terriero divenire
insufficiente di fronte alle esigenze della nuova vita.
Il rinnovamento nella vita civile.
Il risveglio economico avvia ben presto le popolazioni verso uno splendido
rinnovamento civile. La città, simbolo di libertà e di progresso, oscura il
castello, triste ricordo di un periodo di umiliante servaggio; al mestiere delle
armi, occupazione unica della nobiltà feudale, si preferisce in città il lavoro,
che arricchisce; all'eterna mania di guerra si sostituisce il desiderio di pace.
I costumi feroci del medio evo tendono a divenire più miti, perché la nuova
civiltà odia i privilegi e non giustifica la violenza; il servo della gleba, che
fugge in città, diviene libero, perché entro le mura cittadine non esiste la
servitù feudale; la città stessa più tardi affrancherà i servi delle campagne
che verrà conquistando, sì che alle classi oppresse dal feudalesimo il regime
cittadino si presenterà come una speranza di redenzione.
Il rinnovamento artistico e culturale.
Col benessere economico e civile ecco riapparire il desiderio del godimento
della vita, l'aspirazione al lusso, il fasto degli edifici pubblici, la comodità
nelle dimore cittadine.
L'arte, questo indice sicuro della civiltà, appunto
intorno al Mille si risveglia: sorgono allora le grandi cattedrali romaniche,
dove trionfano, con un senso di rinnovata grandezza, l'arco romano, la volta
romana. Scultori nuovi vanno decorando capitelli, portali, pulpiti con antichi
motivi classici e con audaci imitazioni della natura; essi fanno sfoggio di una
maestria e di una ricchezza decorativa, che rivelano le aspirazioni fastose di
gente arricchita da poco tempo. Intanto, attratti dalle ricchezze nuove, vengono
in Occidente gli artisti bizantini, orafi, pittori, alluminatori, i quali
educano al disegno e al buon gusto le generazioni, che vedranno presto il
miracolo della nuova arte italiana.
E rifiorisce anche la cultura, che la società feudale aveva tanto disprezzata.
A
questa rinascita contribuisce senza dubbio la civiltà bizantina, con la quale
l'Occidente viene in più diretto contatto, sia con le ambascerie di Ottone I
all'imperatore di Costantinopoli, sia con l'estendersi e il coordinarsi del
dominio bizantino nell'Italia meridionale, durante il secolo X.
Uomini intelligenti e dotti, come il ministro di Ottone I, Liutprando, vescovo
di Cremona, mandati ambasciatori a Bisanzio e là rimasti a lungo, riportano poi
nell'Occidente l'eco della vita e della civiltà greca, tanto più fine di quella
germanica. Più tardi Teofane, la greca moglie di Ottone II, inaugura fra i
Germani il raffinato vivere orientale, ed educa il figlio Ottone III al gusto
del mondo antico, sì che questo singolare sovrano precede di secoli nei suoi
classici entusiasmi i principi del Rinascimento. Né va confuso coi mediocri o
cattivi papi del suo tempo Gerberto d'Aurillac, dotto di filosofia e di
matematica, che, salito sulla cattedra pontificia col nome di Silvestro II, ebbe
giustamente fama di uomo tanto superiore al normale, da essere creduto poco meno
che un mago dal popolino ignorantissimo: a lui si attribuisce l'introduzione nei
paesi latini delle cifre arabiche, apprese probabilmente nelle relazioni
scientifiche con dotti arabi di quel tempo.
Tutto ciò avveniva nel secolo X, ma fu il seme che nel secolo seguente
fruttificò meravigliosamente. Gli studi si risvegliarono soprattutto nei
monasteri benedettini, che allora erano il centro di un grande movimento di
riforma della Chiesa: prevalsero per cultura in Italia le grandi abbazie di
Montecassino, di Farfa, di Bobbio; in Francia quella di Cluny; in Germania
quella di Fulda. Naturalmente la Teologia e in generale le scienze sacre vi
venivano coltivate con preferenza; ma vi si studiavano pure le così dette arti
liberali del Trivio (Grammatica, Retorica, Dialettica) e del Quadrivio
(Aritmetica, Geometria, Musica, Astronomia).
La società tripartita
CHI PREGA, CHI COMBATTE, CHI LAVORA
Nella società feudale Dio e la fede cattolica avevano un ruolo molto importante.
Gli intellettuali erano quasi sempre degli ecclesiastici, cioè uomini di Chiesa:
per questo, i loro studi e le loro opere erano sempre ispirate alla fede e ai
suoi principi.
Nelle loro riflessioni sulla società in cui vivevano e sul modo in cui doveva
essere organizzata, essi la immaginarono perfetta e immutabile, una specie di
trasposizione in terra della Santissima Trinità. Doveva essere divisa in tre
ordini: gli oratores (coloro che pregano), i bellatores (coloro che combattono),
i laboratores (coloro che lavorano). Ai primi spettava il compito di «volgere le
genti alla devozione e alla vita santa». I secondi dovevano difendere e
mantenere la «Santa fede cattolica», combattendo «gli infedeli». Gli ultimi
dovevano «arare, zappare e strappare la gramigna dalla terra, affinché essa dia
i frutti necessari alla nutrizione» per sé e per gli altri ordini.
DALLA RAPPRESENTAZIONE IDEALE ALLA REALTÀ
Questa immagine della società tripartita, cioè divisa in tre parti, non era
un'immagine reale bensì ideale. Non rappresentava le tante differenze che invece
esistevano all'interno di ciascun ordine.
Proviamo allora a capire quali figure in carne e ossa si nascondessero dietro i
tre ordini. Per avviare l'indagine, concentriamoci prima di tutto sui
"lavoratori".
E' chiaro che, in una società agricola come quella medievale, con l'espressione
"lavoratori" si intendevano principalmente i contadini, che del resto
costituivano la maggioranza dei lavoratori medievali.
Ma....in primo
luogo i contadini non erano tutti uguali fra di loro e poi, al loro fianco,
intorno al Mille, cominciarono ad affermarsi nuove figure di lavoratori, che
vivevano e svolgevano le loro attività soprattutto nelle città: artigiani,
commercianti, cambiavalute, banchieri e mercanti.
I CONTADINI
Nelle curtes, delle quali abbiamo parlato, i contadini erano servi: non erano
schiavi (come nell'antica Roma), cioè proprietà del padrone, ma avevano pur
sempre degli obblighi nei confronti del signore fondiario, tra i quali quello
delle corvées. Quando, intorno al X secolo, il lavoro nelle campagne cominciò a
trasformarsi e a diventare più moderno ed efficace, cambiarono anche il modo di
vivere dei contadini e i loro rapporti con i signori fondiari. Si ridussero le
corvées e aumentarono i canoni in natura (parti del raccolto) o in denaro, che i
contadini dovevano pagare ai proprietari della terra.
Per procurarsi i prodotti agricoli o il denaro necessario a pagare questi
canoni, però, i contadini dovevano aumentare la produttività della terra. Solo
così avrebbero realizzato quel "di più" di produzione da cedere al signore o da
vendere nei mercati cittadini per procurarsi il denaro. Bisognava quindi essere
intraprendenti e coraggiosi, e sperimentare nuove tecniche. Non tutti i
contadini furono in grado di reggere la sfida del nuovo sistema, ma quelli che
ci riuscirono resero più moderne e produttive le terre che coltivavano.
CAVALIERI
All'inizio dell'epoca feudale, i signori che stringevano un patto di fedeltà con
il sovrano erano solo pochi potenti (i cosiddetti "compagni d'arme"), nobili e
ricchi abbastanza da permettersi un'armatura da cavaliere, un cavallo e uno
scudiero personale. Con il trascorrere del tempo, però, anche i nobili, a loro volta, cominciarono a
stabilire rapporti vassallatici con altri signori: a questi concedevano il
beneficio di controllare e amministrare un territorio, in cambio di fedeltà e
aiuti militari.
La società feudale,
quindi, era costituita non solo da masse di contadini, ma
anche da migliaia di vassalli, che erano dei veri e propri professionisti della
guerra.
Le loro abitudini, il loro stile di vita, il loro temperamento erano quelli
tipici di persone abituate a risolvere con la forza ogni controversia.
Tra il X e l'XI secolo, anche quando in Europa le invasioni di popoli come gli
ungari o i saraceni erano ormai cessate o diventate meno frequenti, nelle
campagne e nelle città continuava a imperversare la violenza del più forte sul
più debole: i contadini subivano angherie e soprusi di ogni genere da parte di
cavalieri violenti e senza regole.
GLI ECCLESIASTICI
La Chiesa aveva un ruolo fondamentale nella società medievale. In una situazione
in cui il potere centrale era
debole e poco visibile, spesso rappresentava
l'unica autorità capace di governare la società, d'imporre una legge.
La sofferenza dei contadini, costretti a sopportare i soprusi dei cavalieri,
spinse la Chiesa a intervenire: vescovi e abati cercarono di imporre a quella
schiera di signori armati la cosiddetta "pace di Dio".
I nobili che accettavano
questa "pace", promettevano di non usare violenza contro i contadini e di non
sfruttarli.
Chi non manteneva la promessa subiva la scomunica della Chiesa. Tale difficile
tentativo di educazione influenzò anche la cerimonia con la quale si diventava
cavaliere.
Questa cerimonia suggestiva, attraverso la quale il giovane nobile entrava a far
parte del mondo degli adulti, non aveva inizialmente nessun significato
religioso.
A partire dal IX secolo, invece, la Chiesa riuscì a far inserire
nella cerimonia il giuramento sul Vangelo e poi, dall'XI secolo, la
consacrazione del cavaliere e della sua spada da parte di un ecclesiastico.
In questo modo, la Chiesa cercava di dare al cavaliere una responsabilità non
solo militare, ma anche religiosa e sociale: egli, infatti, doveva giurare di
difendere i più umili e i più deboli e di opporsi a ogni forma di sopraffazione.
La nobiltà del giovane cavaliere non era più solo una condizione sociale, ma una
caratteristica del suo animo e un ideale da raggiungere.
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