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Federico Barbarossa e i Comuni home
1152-1197  

Italia Settentrionale e centrale - Comune di Milano.


Verso la metà del secolo XII  (1150 circa)  l'Italia settentrionale e centrale era tutta una fioritura di liberi Comuni.

L'imperatore Enrico V di Franconia (1106-1125), impegnato continuamente, cMilano medievaleome il padre, nella lotta col Papato per la questione delle investiture, benché fosse venuto più volte in Italia, non aveva mai potuto occuparsi di proposito dei Comuni.

Questi, profittando della noncuranza imperiale; si erano consolidati, avevano esteso il territorio a danno dei feudatari vicini, e si facevano spesso guerra fra loro senza mai ricorrere all'arbitrato dell'imperatore.

Emerge allora per potenza Milano, sorta a libertà durante la lotta (1042-1044) fra il popolo, condotto da Lanzone, e la nobiltà alleata con l'arcivescovo Ariberto.

Le controversie per la riforma della Chiesa danno nuova spinta al divampare delle discordie: i nobili, stretti intorno all'arcivescovo Guido da Velate, successore di Ariberto, si oppongono alla riforma del clero voluta da Roma; vi é invece favorevole il popolo della Pataria, che agli ordini di due diaconi, Arialdo e Landolfo e più tardi del milite Erlembaldo, combatte l'arcivescovo, riesce a cacciarlo dalla città, e forma un governo autonomo con un Consiglio di trenta cittadini.

L'energia d'Erlembaldo nel combattere i vescovi e i preti simoniaci, ridesta l'opposizione dei nobili, i quali in una mischia feroce l'uccidono (1075).

Intanto la lotta tra Enrico IV (1056-1106) e Gregorio VII coinvolge la questione di Milano, dove, mentre i nobili chiedono all'imperatore la nomina di un nuovo arcivescovo, il popolo d'accordo col papa ne elegge un altro. In mezzo al groviglio delle contese cittadine, si viene determinando un fatto chiarissimo: al finire della lotta per le investiture, Milano si è emancipata dalla soggezione politica al suo arcivescovo-feudatario, ed é divenuta un libero Comune.
Assai incerta é la primitiva costituzione comunale di Milano. Pare che nei tempi più antichi il Comune non avesse che i Consoli e il Parlamento: tanto i primi, come il secondo erano sotto il controllo della nobiltà cittadina, che riuscì a dominare il Comune con la forza delle sue armi, come prima aveva dominato il vescovo.

Nel 1113 accanto ai Consoli del Comune, che avevano il potere esecutivo, furono posti i Consoli di Giustizia, i quali fungevano da giudici nelle cause civili. Anche a Milano i Consoli furono spesso sostituiti da un Podestà, di origine forestiera, finché all'inizio del secolo XIII il regime podestarile s'impose e i Consoli scomparvero. Accanto al Parlamento era sorto intanto il Consiglio di Credenza, anch'esso dominato dai nobili, mentre la borghesia tendeva alla formazione di un Consiglio di carattere popolare, che sorgerà poi col nome di Credenza di S. Ambrogio.
Ciò che era avvenuto a Milano, si era ripetuto, in forme analoghe, nelle principali città dell'Italia settentrionale e centrale, tutte ormai rette a libero Comune.

Atteggiamento dei Comuni di fronte all'Impero - Apparente fedeltà dei Comuni all'Impero.

I Comuni riconoscono nell'imperatore l'origine di ogni sovranità; perciò si adoperano per ottenere da Enrico IV, da Enrico V, da Corrado III carte e privilegi, che confermino le guarentigie e le libertà conquistate; quando fanno trattati fra di loro, spesso alle condizioni contrattuali aggiungono la clausola — salva debita fidelitate imperatori — e ciò nei giorni stessi della lotta contro il Barbarossa.

Proprio in quel periodo, in una città eminentemente comunale come Bologna, nasce e fiorisce la grande scuola del diritto, che da Irnerio a Bartolo si affatica sul commento del Corpus Juris, affermando la validità del diritto romano nel risorto Impero tedesco-latino, e ponendo l'autorità imperiale al di sopra di ogni altro potere (quod principi placuit legis habet vigorem).
Reale opposizione fra Comune e Impero.

Le dichiarazioni di fedeltà sono esplicite, i fatti però le smentiscono spesso. Prima di tutto alcuni Comuni non avevano mai ricevuto carte imperiali in conferma delle loro autonomie,  altri,  pur ostentando carte e privilegi, in realtà li avevano estorti agl'imperatori, incapaci, per la loro debolezza politica, di resistere alle usurpazioni. Quanto poi alla tanto decantata fedeltà, essa era una formula vuota di senso, poiché tutta l'azione del Comune tendeva ad una completa autonomia dall'Impero. Né del resto poteva essere diversamente. Sorto con un programma antifeudale, il Comune si poneva da sé fuori dell'ordinamento della società medioevale, e in uno stato di ribellione verso l'Impero, il quale aveva sì combattuto i grandi feudatari, non per sopprimerli, ma per farne dei dipendenti fedeli e non gradiva sicuramente veder sorgere al loro posto i Comuni, la cui costituzione, sempre più borghese, cozzava con l'idea aristocratica dell'Impero.

Che questi infatti mirassero a dare alla nuova società una base tutta diversa da quella feudale, lo prova appunto l'attività giuridica delle Università di Bologna e di Padova, dove, accanto al rinascere del classico diritto imperiale, si venne formando un nuovo diritto consuetudinario, che si fondava sulla reale situazione dell'autonomia cittadina e portava alla compilazione degli Statuti, i quali erano i codici politici, civili e penali dei liberi Comuni, la legge dei tempi nuovi.


Usurpazione delle regalie.

La tendenza dei Comuni verso una piena autonomia appare del resto dal loro stesso contegno. Sostituendosi ai feudatari e riconoscendo in teoria la sovranità dell'Impero, il Comune fu costretto a prestare quell'omaggio, a pagare quei tributi e ad addossarsi tutti quegli oneri verso l'imperatore, che erano prescritti dal regime feudale. Tra questi, maggiore importanza avevano le regalie, cioé i diritti spettanti alla sovranità imperiale, come l'investitura dei magistrati per l'amministrazione della giustizia, il privilegio di batter moneta, il diritto di imporre tasse, pedaggi, ecc. Nei primi tempi i Comuni adempiono ai loro obblighi verso l'Impero con poco slancio e avaramente, ma in modo da non suscitare immediati conflitti; rispettano anche le regalie o se ne sottraggono solamente quando ne abbiano ottenuta l'esenzione dallo stesso imperatore. Più tardi però, profittando delle difficili condizioni dell'Impero, sconvolto da competizioni dinastiche, e sfruttando le lunghe assenze degli imperatori dall'Italia, cominciano a sottrarsi agli obblighi feudali, si rifiutano di pagare le gravezze imperiali, legiferano senza il controllo sovrano, eleggono vescovi e magistrati in piena indipendenza, fanno leghe tra loro o si combattono come potenze rivali, assaltano i feudatari circostanti e ne annettono le terre soggette a vincoli feudali; in una parola, usurpano una ad una tutte le regalie, distruggendo ogni legame di dipendenza dall'Impero. Così il Comune é divenuto il naturale nemico dell'Impero, il sovvertitore di tutto il mondo feudale.


La guerra civile in Germania: Guelfi e Ghibellini

Mentre in Italia sorgevano i Comuni, la Germania era sconvolta dalla guerra civile. Con la morte dell'imperatore Enrico V (1125) Si era estinta la Casa di Franconia, rimasta famosa nella storia per la sua violenta politica verso la Chiesa.

I grandi signori tedeschi, radunatisi per l'elezione del nuovo sovrano, si trovarono divisi in due partiti: l'uno, contrario alla politica antipapale della Casa di Franconia e composto prevalentemente di feudatari ecclesiastici, sosteneva la candidatura di Lotario II di Suplimburgo, duca di Sassonia, e si chiamò poi dei Guelfi da un Welf (Guelfo), fondatore della Casa di Baviera, partigiana di Lotario; l'altro invece appoggiava Corrado di Hohenstaufen, duca di Svevia, amico del defunto Enrico V, e si disse dei Ghibellini da Waiblingen, l'avito castello degli Hohenstaufen nel Wurttemberg.

Questi due nomi di Guelfi e di Ghibellini, che in Germania significarono due partiti dinastici, ciascuno dei quali teneva verso la Chiesa un atteggiamento diverso, in Italia presero un significato ancora più chiaro e decisivo: siccome gl'imperatori che più combatterono il papa e i Comuni furono proprio quelli della Casa di Svevia, Ghibellini si dissero tutti i partigiani dell'imperatore, e Guelfi gli amici del papa e dei Comuni. Più tardi però si perdette questo significato, e i due nomi rimasero per indicare, nelle lotte cittadine, semplicemente i due partiti opposti.
La discordia travagliò per parecchi decenni la Germania, sì che l'autorità imperiale ne fu scossa.

Lotario II (1125-1137) combatté a lungo contro il rivale, e per assicurarsi l'aiuto della Chiesa dovette fare concessioni, che diminuirono non poco il suo prestigio di fronte ai grandi feudatari laici. Desideroso di avere l'appoggio del papa, venne a Roma proprio nel momento in cui era scoppiato lo scisma: il pontefice Innocenzo II e l'antipapa Comuni e BarbarossaAnacleto II si contendevano il trono.

Lotario poté con la forza ricondurre in Roma papa Innocenzo II, che ne era stato cacciato, e si fece dare la corona imperiale (1133); ma non riuscì ad espugnare la città Leonina, dove si era rinchiuso l'antipapa, forte della protezione di Ruggero II, da lui nominato, tre anni innanzi, "re di Sicilia".

L'imperatore ottenne dal pontefice la consegna di alcuni beni matildini in Toscana, soggiacendo però ad una forma di investitura, che fece quasi apparire Lotario come vassallo della Chiesa. Egli venne ancora in Italia per combattere Ruggero II; conseguì invero successi così scarsi, che s'indusse a ritornare in Germania, dove morì nel 1137. Non avendo figli maschi, Lotario II aveva designato come erede e successore il proprio genero Enrico il Superbo, duca di Baviera, da lui investito anche dei beni matildini in Toscana.

Ereditando inoltre la Sassonia, Enrico diveniva potentissimo. Ciò indusse molti feudatari a preferire l'antico rivale di Lotario, Corrado di Hohenstaufen, di parte ghibellina, il quale fu eletto re di Germania (1138). Corrado III di Svevia ebbe anch'egli un regno assai travagliato (1138-1152), perché la lotta fra Guelfi e Ghibellini divenne ancora più acuta e si protrasse fin dopo la morte di Enrico il Superbo (1139), quando cioé il figlio di costui, Enrico il Leone, poté ottenere la contestata Sassonia (1142), cedendo però la Baviera. Corrado III prese parte alla seconda Crociata (1147-1149) insieme col re di Francia, Luigi VII, ma non raccolse che insuccessi. E nemmeno poté venire in Italia per prendervi la corona imperiale, sebbene dal popolo romano fosse stato invitato a farsi arbitro delle contese sorte in Roma, per la focosa predicazione di Arnaldo da Brescia.

Federico I di Svevia, detto il Barbarossa (1152-1190)

L'Impero, disorganizzato in Germania, disprezzato in Italia, sembrava avviarsi nuovamente verso la decadenza, quando alla morte di Corrado III (1152) saliva al trono il nipote Federico I di Svevia, detto Barbarossa, il quale é davvero l'ultimo grande restauratore dell'Impero.

Figlio di padre ghibellino della famiglia degli Hohenstaufen e di madre guelfa, egli pareva adatto più d'ogni altro a pacificare i due partiti rivali; uomo ricco di belle doti, pieno di coraggio e di energia, sembrava il sovrano ideale in quei tempi di disordine e di dissolvimento. Il nuovo imperatore aveva dell'Impero un concetto molto alto e si ispirava agli ideali di Carlo Magno e di Ottone I; egli si propose quindi un energico programma di restaurazione dell'autorità imperiale, tanto in Germania, quanto in Italia.
Per mettere in esecuzione questo programma, si servì della rinascita del diritto romano nello Studio di Bologna: infatti nulla meglio del Corpus Juris poteva servire di base all'assolutismo imperiale; più spesso però Federico ricorse alle armi, in cui era valorosissimo, e alla astuzia, nella quale era maestro. E subito volle sistemare le cose di Germania per assicurarsi le spalle nell'azione, che egli vedeva imminente verso il Papato e i Comuni. Fece pace con Enrico il Leone, duca di Sassonia, restituendogli la Baviera (1156) : così il partito guelfo tacque soddisfatto. Di fronte alla grande potenza del rivale pacificato, Federico rafforzò i suoi possessi di Svevia e vi aggiunse parte della Franconia e la Borgogna superiore : così la Germania fu come divisa in due zone di uguale forza; sul loro equilibrio si fondò la politica tedesca del nuovo imperatore. E quando (1179) questo equilibrio venne meno per l'ambizione di Enrico, il Barbarossa seppe difendere la propria corona, spodestò il rivale, costringendolo ad andarsene in esilio e, separata dalla Sassonia la Baviera, diede quest'ultima ai Wittelsbach (1180), i quali la governarono poi fino al 1918. Dal tempo di Ottone I, nessun imperatore aveva dimostrato tanta energia di fronte alla prepotenza dei grandi signori feudali.


Federico Barbarossa e la lotta contro i Comuni.

Ordinate le cose di Germania, Federico I pensò alle cose d'Italia. Qui per le prolungate assenze degli, imperatori, la vita politica si svolgeva in un'atmosfera di piena autonomia. Lungo il mare, Venezia, Genova e Pisa spadroneggiavano; nel sud, i Normanni avevano formato un vasto regno indipendente; nella stessa Roma, il popolo, sollevato da Arnaldo da Brescia, con la creazione del libero Comune tentava di sottrarsi per sempre alla dominazione temporale dei papi. Nell'Italia settentrionale poi, i Comuni maggiori sfoggiavano un'indipendenza, che al Barbarossa doveva sembrare insolente : Milano soprattutto, la quale, assoggettate Lodi e Como, alleata di Asti, di Tortona, di Crema, Barbarossaminacciava Pavia, Cremona, il marchese del Monferrato, e tendeva a divenire il centro di una grande coalizione di città contro l'Impero. Occorreva dunque che il Barbarossa restaurasse l'ordine in Italia: lo chiedeva il papa in lotta con il Comune di Roma; lo esortavano i messi delle città lombarde, angariate dalla potente Milano.
La prima discesa del Barbarossa (1154-1155) risale al 1154 quando Federico, valicate le Alpi, entra in Italia e raccoglie una solenne Dieta di feudatari e Comuni sui campi di Roncaglia, vicino Piacenza. Là egli rivendica energicamente all'Impero tutte le regalie usurpate, da ascolto ai nemici di Milano, favorisce il marchese del Monferrato e impone alle città rivali di sospendere le ostilità, di sciogliere le leghe, di giurare fedeltà all'Impero.

L'opposizione si rivelò subito, condotta da Milano; ma l'imperatore, non avendo le forze per assalire quella potentissima città, si contentò per allora di metterla al bando dell'Impero; incendiò Asti e Chieri, le consegnò al marchese del Monferrato e distrusse Tortona, amica di Milano.

Ciò fatto, cinse a Pavia la corona ferrea, e proseguì per l'Italia centrale verso Roma.

Alla lettera, rivolta dai Romani a Corrado III, l'imperatore Federico aveva risposto con duri rimproveri, onde papa Eugenio III subito pensò di servirsi di lui per abbattere il ribelle Comune di Roma e il monaco Arnaldo da Brescia. La morte colse il papa prima che i suoi nemici fossero umiliati (1153); ma il suo successore Adriano IV (l'unico inglese che sia divenuto papa) riprese con maggior fortuna la lotta con il monaco e lanciò l'interdetto contro la città.

Lo spavento dei Romani per tale punizione religiosa indusse i senatori a chiedere perdono al papa, sacrificando Arnaldo, che dovette fuggire. Proprio allora il Barbarossa si era incamminato verso Roma, per venirvi a prendere la corona imperiale; onde per ingraziarsi il papa, fece catturare il ribelle e lo consegnò ai legati, spediti appunto per questo dal pontefice. Così Arnaldo da Brescia fu processato come eretico, impiccato e arso (1155); le sue ceneri furono gettate nel Tevere. La sua memoria però rimase vivissima in quei giorni, in cui si stava preparando un vasto movimento ereticale contro la Chiesa, accusata di mondanità e di eccessiva ricchezza.

Intanto il 18 giugno 1155 Federico I di Svevia era stato incoronato imperatore da Adriano IV, in mezzo al malcontento della plebe romana, rimasta verso il sovrano in un atteggiamento di diffidenza e di ostilità. Infatti pochi giorni dopo i partigiani di Arnaldo, reagendo alle angherie dei Tedeschi, provocarono una sanguinosa rivolta di popolo, in cui rimasero uccisi molti dell'una e dell'altra parte.

Federico dovette allora uscire da Roma, come un fuggiasco, frettolosamente salutato dal pontefice e dai cardinali.
Non si creda però che tra Papato e Impero esistessero rapporti di grande cordialità: infatti, passato il pericolo di Arnaldo da Brescia, Adriano IV nelle sue lettere all'imperatore cominciò ad usare il tono altero di Gregorio VII, mentre Federico gli rispondeva con fatti ispirati all'assolutismo di Ottone I e di Enrico IV. Il vecchio conflitto tra le due supreme podestà si ridestò; il papa dovette naturalmente appoggiarsi ai Comuni, e così la seconda lotta tra il Papato e l'Impero finì per coincidere con la lotta tra i Comuni e l'imperatore; questi era ghibellino, dunque il Papato e i suoi fautori divennero per forza guelfi.
Mentre l'imperatore stava in Germania, Milano ricostruiva Tortona, finiva di distruggere la nemica Lodi, assoggettava Vigevano, umiliava Pavia e Cremona: mai la potenza del Comune milanese era stata così grande.

Seconda discesa del Barbarossa: seconda  Dieta di Roncaglia e distruzione di Milano.

Nel 1158 il Barbarossa era di nuovo in Italia, questa volta con un grosso esercito, in cui accanto ai Tedeschi stavano i cittadini dei Comuni nemici di Milano, primi fra tutti i Lodigiani e i Comaschi, poi i Pavesi e i Cremonesi, ardenti ghibellini.

Milano fu cinta da assedio e dovette capitolare, rinunciando alle regalie usurpate, sciogliendo le leghe ostili all'Impero, aiutando la ricostruzione di Lodi e di Como. Ebbro per la vittoria, Federico credette giunto il momento di decidere con una disposizione generale la sorte dei Comuni e di regolarne in modo definitivo i rapporti con l'Impero. Convocata una seconda Dieta a Roncaglia, fece venire da Bologna quattro giuristi dello Studio, tutti discepoli del famosissimo Irnerio, cioé Bulgaro, Martino, Jacopo e Ugo, i quali sulla scorta del diritto romano, così favorevole all'assolutismo imperiale, esaminarono tutta la questione delle regalie e diedero ragione al sovrano, dichiarando che fonte d'ogni diritto e d'ogni legge era l'imperatore.

Così Federico poté, con maggiore alterigia, rivendicare a sé il diritto di dare nei Comuni l'investitura dei poteri ai consoli e ai podestà, di amministrare la suprema giustizia, di esigere tasse, di coniare monete; poteva bensì il sovrano concedere ad altri l'immunità, cioé l'esenzione da queste regalie; coloro anzi che coi documenti alla mano riuscivano a dimostrare di aver goduto in passato di tali privilegi per concessione imperiale, avrebbero potuto ancora goderne; chi però li aveva usurpati adducendo come motivo il disinteresse degl'imperatori precedenti, doveva restituire queste regalie, non essendo ammessa la prescrizione nei rapporti con l'Impero.

Furono rinnovate le disposizioni imperiali sulla illegalità della vendita o del frazionamento dei feudi, e perciò furono annullate tutte le cessioni fatte ai Comuni e le conquiste loro a danno dei feudatari.

A queste disposizioni, miranti a restaurare l'autorità dell'Impero, Federico aggiunse una esortazione alla pace pubblica, imponendo alle città di giurare fede all'imperatore, intimando lo scioglimento delle leghe, e obbligando tutti, nei casi controversi, a ricorrere non alle armi, ma al tribunale imperiale (1158).
Barbarossa e il comune di Milano
Le deliberazioni prese a Roncaglia, non erano nuove: esse, sebbene ispirate alle norme del diritto romano, di fatto però discendevano dalla vecchia politica feudale. Appunto per questo i Comuni, che pure avevano dovuto firmarle, cercarono subito d'impedirne l'esecuzione, paventando, attraverso questa pericolosa revisione delle immunità, il risorgere del feudalesimo, nemico d'ogni libertà.

Quando infatti Federico, cominciando a mettere in pratica i suoi decreti, ritolse ai Comuni le terre da essi sottratte ai feudatari, sciolse le leghe e mandò i podestà imperiali ad esercitare la giustizia e a tutelare i diritti dell'Impero nelle città, la rivolta fu generale: Crema e Milano ne diedero l'esempio cacciando dalle mura i magistrati imposti dal Barbarossa. Allora fu di nuovo la guerra: Crema, assediata e martoriata per otto mesi continui, fu presa e distrutta (1160).
Alla lotta aveva portato un forte contributo l'elezione del nuovo papa Alessandro III (1159). Questi era quel cardinale Rolando Bandinelli di Siena, che Federico aveva imparato a conoscere nel 1157, quando nella Dieta di Besancon l'aveva sentito parlare, a nome di papa Adriano IV, in modo così altero, che i baroni e lo stesso sovrano erano insorti accusandolo d'insolenza verso l'Impero. Della vecchia scuola di Gregorio VII, il nuovo papa, che era un eccellente giurista, non faceva mistero alcuno delle sue idee di supremazia politica, e perciò non si tenne dal dimostrare le sue simpatie verso le città lombarde, ribelli all'imperatore.

Questi allora fece eleggere l'antipapa Vittore IV e costrinse Alessandro III a fuggire in Francia. La scomunica, che il papa lanciava al Barbarossa, era una dichiarazione di alleanza coi nemici di lui. L'imperatore volle dare un solenne esempio della sua forza: mosse contro Milano, ne devastò il territorio, poi la cinse d'assedio. La resistenza fu eroica, ma la fame costrinse i cittadini alla resa (1162) : le mura furono abbattute, molte case distrutte, la popolazione lasciata in balia dei Pavesi e dei Cremonesi assetati di vendetta, e finalmente dispersa per le campagne. Su tanta rovina un podestà imperiale fu posto a governare e ad angariare i superstiti. L'antico e potente Comune di Milano pareva scomparso per sempre dalla scena politica dell'Italia.

Federico Barbarossa terza (1163) e quarta (1166) discesa in Italia

La repressione era stata troppo brutale perché tra gli oppressi non si facesse strada l'idea di una riscossa; e bene se ne accorse Federico quando nel 1163, sceso per la terza volta in Italia quasi senza esercito, se ne dovette ritornare immediatamente. Le leghe di città risorgevano da ogni parte, le mura di Milano stavano per rinascere; Alessandro III, contro il quale il Barbarossa sosteneva il nuovo antipapa Pasquale III, succeduto a Vittore IV, divenne il capo morale dell'opposizione a Federico, e con mezzi materiali e spirituali spingeva tutti alla lotta. Allora l'imperatore decise di abbattere definitivamente il pontefice, scese per la quarta volta nel 1166, costrinse alla resa Ancona, che si era posta sotto la protezione dei Bizantini e voleva resistergli, e, apertasi così la via di Roma, giunse nell'eterna città nell'estate del 1167, dove entrò combattendo continuamente fin nelle vie e nelle basiliche, e pose sul trono di S. Pietro il suo antipapa.

Alessandro III era fuggito; Federico sembrava ormai trionfante, allorché un'epidemia improvvisa fra le truppe tedesche costrinse l'imperatore a lasciare Roma e a ritornare in Germania.
Intanto sorgevano qua e là leghe tra i Comuni dell'Italia settentrionale. Nel 1164, proprio mentre l'imperatore era in Italia, a Verona i delegati di Verona stessa, di Padova e di Vicenza avevano dato l'esempio della concordia, stringendosi tra loro in alleanza. Tre anni dopo alcune città lombarde giuravano nel monastero di Pontida un patto di colleganza coi Milanesi, al quale patto accedettero anche le altre città del Veneto, della Lombardia, parecchie del Piemonte e dell'Emilia: così sorse la grande Lega Lombarda (1167); in essa, a fianco delle vecchie città guelfe, apparvero qualche mese dopo anche le città di Lodi, Cremona, Como, strappate ai Ghibellini. Simbolo della rinata forza dei Comuni fu la ricostruzione di Milano.
La Lega Lombarda, appena sorta, si accinse a fronteggiare l'imminente ritorno offensivo dell'imperatore; per sorvegliare il più potente alleato di Federico, il marchese del Monferrato, e molestare le comunicazioni tra quel territorio e la ghibellina città di Pavia, i Comuni alleati fondarono una fortezza alla confluenza del Tanaro con la Bormida, e la chiamarono Alessandria in onore del papa.

Federico I, quinta discesa (1174-1177) e battaglia di Legnano (29 maggio 1176)

Nel 1174 ecco di nuovo Federico in Italia. Egli si accinse subito ad assediare Alessandria, ma molestato da un esercito della Lega, fu costretto ad abbandonare quella città, senza essere riuscito ad espugnarla in sei mesi d'assedio. Corsero allora trattative di pace e si fece anche un compromesso, firmato a Montebello, presso Voghera; ma il papa, che non era stato interpellato e rischiava di rimanere solo contro l'imperatore, riuscì a far fallire ogni tentativo di accordo.

Federico, che voleva tornare sollecitamente in Germania, dove Enrico il Leone ricominciava le sue mene ambiziose, aveva già sciolto l'esercito dei suoi alleati italiani quando, fallite le trattative, egli si trovò in una pericolosa inferiorità. Allora fece venire subito dalla Germania un piccolo esercito, racimolato in fretta, e a quello si unì per riprendere la guerra. Il 29 maggio 1176 a Legnano le truppe imperiali si scontrarono con l'esercito della Lega e furono sconfitte in modo così disastroso, che lo stesso imperatore, caduto da cavallo e smarrito per parecchi giorni, fu pianto per morto alla corte di Pavia. La pace s'impose e fu trattata a Venezia, dove nel maggio del 1177 insieme coi delegati delle città vittoriose, coi rappresentanti del normanno Guglielmo II re di Puglia e di Sicilia, protettore della Chiesa, si trovarono il papa e l'imperatore.

Federico s'intese con Alessandro III, revocò quanto aveva fatto contro la Chiesa, abbandonò il partito dell'antipapa e ricevette così l'assoluzione dalla scomunica, riportando la contesa tra Papato e Impero presso a poco alle condizioni del Concordato di Worms.
Assai più ardua fu la conclusione della pace tra l'imperatore e i Comuni, poiché Federico, forte ormai dell'accordo stretto col papa, si mostrava poco arrendevole coi Comuni. Dopo lunghe discussioni, le due parti contendenti, persuase di non poter giungere per allora ad una pace definitiva, si accordarono a firmare una tregua di sei anni.

 

Comuni e Barbarossa

Pace di Costanza (1183) e le conseguenze della lotta

Né Federico, nuovamente impegnato nella contesa con Enrico il Leone, né i Comuni, poco sicuri della stabilità della lega e dell'appoggio del papa, avevano interesse a riprendere una lotta, che per più di venti anni aveva logorato le forze dei due contendenti, senza dare alcun vantaggio durevole all'imperatore, e seminando di rovine l'Italia. Allo spirare della tregua si iniziarono approcci da una parte e dall'altra, i quali condussero ad una serie di trattative ufficiali, tenute a Piacenza nei primi mesi del 1183. I patti, allora conclusi, ebbero poi il definitivo suggello nella pace di Costanza, firmata in quella città dai delegati delle due parti il 25 giugno 1183.
Col trattato di Costanza l'imperatore accettava in grazia i Comuni, ne riconosceva tutti i privilegi goduti ormai per tradizione, ammetteva il loro diritto di avere un esercito, di fortificarsi e di eleggere liberamente i propri magistrati, i quali però dovevano riconoscere la loro investitura dal sovrano, a cui erano inoltre riservate le controversie di maggiore entità.
In sostanza l'imperatore, insistendo sulla questione di principio, otteneva dai Comuni una dichiarazione di vassallaggio; alla loro volta i Comuni ricevevano dall'imperatore un pieno riconoscimento e la conferma dei loro diritti all'autonomia amministrativa e, in parte, anche politica. In seguito poi, cadute in disuso le restrizioni imperiali, l'autonomia politica dei Comuni divenne assoluta. Così la vittoria dei Comuni sull'Impero poté dirsi completa.
La lotta fra i Comuni lombardi e l'Impero fu di ispirazione nettamente antifeudale. Ma non fu un semplice episodio del secolare contrasto fra il castello e la città, fra l'agricoltura e l'industria, fra la chiusa aristocrazia feudale e la nuova borghesia cittadina. Di fronte ai Tedeschi del Barbarossa i rappresentanti della Lega Lombarda si proclamano Italiani con un senso di fierezza, che era ignoto nei secoli precedenti. L'intervento stesso del papa a fianco dei Comuni rende ancor più evidente il carattere di questo conflitto, che si risolve in un cozzo violento tra l'antica civiltà latina, risorgente nel cuore degl'Italiani, e la mentalità teutonica del medio evo. Purtroppo la concordia di quei giorni passò assai presto, e gl'Italiani tornarono divisi più che mai; rimase però un più profondo distacco dell'Italia dalla Germania, distacco che contribuì senza dubbio a quel libero fiorire della genialità italiana che é il Rinascimento.

Gli Svevi nell'Italia meridionale.
Federico Barbarossa, che tanto si era adoperato per imporre al Papato e ai Comuni la supremazia imperiale, volentieri avrebbe steso la mano avida sul florido regno normanno di Sicilia e di Puglia, vassallo della Chiesa, se l'impresa non fosse parsa troppo ardua a chi aveva dovuto subire la disfatta di Legnano e la umiliante tregua di Venezia.,

Ma là dove le armi non sarebbero riuscite, giunse invece l'astuta diplomazia imperiale. Guglielmo II il Buono, re di Puglia e Sicilia, non aveva figli; perciò, non esistendo fra i Normanni la legge salica, unica erede del trono diveniva sua zia Costanza, figlia di Ruggero II, ancora nubile. L'imperatore chiese allora la mano di lei per il proprio figlio Enrico, appena ventenne, e vincendo l'opposizione dei signori normanni e del Papato, riuscì nell'intento: nel gennaio 1186 con uno sfarzo fantastico veniva celebrato il matrimonio a Milano. In tale occasione il principe fu coronato "re d'Italia" dal patriarca d'Aquileia, e nominato "Cesare", cioé imperatore designato, con un frasario ed un cerimoniale che ricordavano i tempi del basso Impero.
Come il re Guglielmo II il Buono potesse indursi a tale atto, che poneva il suo regno in balìa dei Tedeschi, é poco chiaro: forse egli sperava di ottenere dall'imperatore un valido aiuto nella guerra che il Regno normanno faceva da tanto tempo contro l'Impero d'Oriente.

Ad ogni modo gravissime furono le conseguenze di questo matrimonio, non solo per la monarchia normanna, ma anche per tutta l'Italia, la quale, pur avendo fiaccato la potenza tedesca in Lombardia, aveva dovuto tollerarla nel feudo matildino di Toscana, ed ora se la vedeva risorgere ancor più minacciosa nel Mezzogiorno. Gravissima poi divenne la situazione del Papato, premuto da ogni parte dalla tracotante invadenza degli Hohenstaufen : esso, che aveva cercato con tutti i mezzi di impedire quell'infausto matrimonio, fu allora costretto a dare alla propria politica un indirizzo deciso ed energico, favorendo più apertamente in Germania il partito guelfo e appoggiando di nuovo in Italia i Comuni; da ultimo s'indusse al grave passo di chiamare a Napoli gli Angioini di Francia.

Morte del Barbarossa

Nel 1189 Federico Barbarossa parti insieme con Filippo Augusto, re di Francia, e con Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra, per la terza Crociata (1189-1192). Giunto in Asia, espugnò la città turca di Iconio, e già stava per entrare in Siria, allorché, bagnandosi nel fiume Salef, miseramente annegò (1190). La Crociata proseguì, ma le discordie sorte tra i vari principi, impedirono che da quella si traessero grandi e durevoli effetti .
Qualche mese innanzi era morto anche il re normanno Guglielmo II (1189), onde il figlio del Barbarossa, Enrico VI, si trovò insieme imperatore, re di Germania, re di Sicilia e di Puglia (1190-1197). Ora, mentre tra i feudatari tedeschi si ridestava minaccioso il vecchio partito guelfo condotto da Enrico il Leone, lo spodestato duca di Sassonia reduce dall'esilio, in Sicilia i grandi signori normanni eleggevano re Tancredi, conte di Lecce, rampollo di un figlio illegittimo di Ruggero II, e iniziavano una guerra civile, che doveva proseguire anche sotto Guglielmo III, figlio e successore di Tancredi. Ma Enrico VI non esitò di fronte alla rivolta; con barbara crudeltà di mezzi s'impadronì del regno, fece uccidere Guglielmo III (1194), e con pugno di ferro governò i popoli irrequieti, disseminando per l'Italia feroci vicari tedeschi.

La tensione degli animi era grande, soprattutto penosa appariva la condizione del Papato, stretto ormai da ogni parte dalla prepotenza tedesca. Quand'ecco all'improvviso nel 1197, a soli 32 anni, Enrico VI moriva, lasciando un tenero figlio di appena tre anni, il futuro Federico II, sotto la tutela della madre Costanza.

Fu il caos: in Italia ricominciarono le agitazioni; in Germania i feudatari, divisi in Guelfi e Ghibellini, dopo aver ricusato di riconoscere per imperatore il fanciullo, combatterono fra loro per contendersi il trono.