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1212-1302  

L'imperatore Federico II di Svevia (1212-1250):

carattere e politica verso il Papato e i Comuni
 

L'imperatore Federico II di Svevia Castello dell'imperatore Federico IIè una delle più interessanti figure del medioevo. Nato nel 1194 a Iesi, nella Marca d'Ancona, dall'imperatore Enrico VI, rude tedesco, e da Costanza, principessa italiana, erede del Regno normanno, Federico II si presenta come una figura molto complessa e sicuramente in anticipo sui tempi della storia.

Coltissimo, tollerante di pensiero secondo la buona tradizione normanna, si circonda di dotti cristiani e musulmani, parla diverse lingue, si diletta di poesia e di musica; ma è saggio anche nel governare, e regge con pari abilità lo scettro e la spada.

Della Germania s'interessa solo quel tanto che basta per tenersela fedele.

L'Italia è il suo continuo pensiero.

A Melfi, a Foggia, a Lucera, a Palermo, dovunque pone la sede, egli si circonda di una corte, che è la più brillante del mondo: là, davanti ai soldati saraceni, custodi della persona dell'imperatore, passano grandi feudatari tedeschi, vescovi italiani, dotti arabi, monaci eruditi, filosofi miscredenti, poeti e cantori, in una promiscuità, che a quei tempi parve scetticismo e irreligiosità, non tolleranza.
Federico è descritto dai cronisti guelfi come un cinico beffardo che si burla del sacro: Dante lo pone nell'inferno tra gli eresiarchi.

Come sovrano, egli ha il programma assolutistico della Casa di Svevia: si ribella alle pretese di superiorità del Papato con la stessa tenacia di Enrico IV, e rinnega le libertà dei Comuni italiani con la durezza, propria del Barbarossa. Si profila dunque all'orizzonte politico una nuova lotta, nella quale di fronte all'imperatore si presenteranno, nuovamente alleati, i Comuni e il Papato.

 

La lotta coi Comuni e col Papato

Alla morte d'Innocenzo III (1216) salì al trono pontificio un uomo di ben altro carattere, il mite e pacifico Onorio III, il quale diede a Federico la corona imperiale nel 1220, col patto che egli partisse subito per la Crociata.

Ma l'imperatore aveva per il capo ben altri pensieri: doveva reprimere alcune ribellioni sorte in Sicilia, riordinare il regno meridionale e riprendere in esame la posizione dei liberi Comuni; perciò nel 1226 indisse una Dieta a Cremona per trattare "della Crociata, degli eretici, dei diritti imperiali e delle cose d'Italia". Fu un allarme generale fra i maggiori Comuni della Lombardia, del Veneto, dell'Emilia, i quali a San Zenone (tra Mantova e Verona) si strinsero in una nuova Lega Lombarda (1226), decisi a riprendere la lotta come ai tempi del Barbarossa: Federico II rispose mettendo quei Comuni al bando dell'Impero.
Poco dopo moriva il papa, e gli succedeva Gregorio IX, che, sebbene molto vecchio, aveva l'energia e gli entusiasmi di un Innocenzo III: egli intimò a Federico, che già aveva raccolto a Brindisi un esercito, di partire per la Crociata. Nel settembre del 1227 finalmente la flotta spiegava le vele al vento, e già il papa gioiva del suo successo, quando ecco, dopo poche settimane, riapparire di ritorno la spedizione: una pestilenza era scoppiata fra i Crociati. Federico II di Svevia
Gregorio IX non vi credette e scomunicò Federico II; questi protestò contro il papa chiamando a testimone l'Europa intera. Ma poi nel 1228 salpò, così scomunicato, per una nuova Crociata, e, conclusi accordi con alcuni principi musulmani d'Egitto e di Siria, ricostituì un effimero Regno di Gerusalemme (1229). Nella chiesa del Santo Sepolcro si fece incoronare re di Gerusalemme perché marito di Iolanda di Brienne, ultima erede di quella corona (sesta Crociata).
Intanto Gregorio IX, il quale aveva pubblicamente condannato i patti con gl'infedeli e riprovato la condotta dell'imperatore, faceva invadere il Napoletano da truppe mercenarie, che avanzavano saccheggiando e distruggendo. Federico accorse precipitosamente, batté l'esercito nemico, e col trattato di San Germano (1230) costrinse il papa a desistere dalla ostilità e a togliergli la scomunica.
La pace con Gregorio IX non fu in realtà che una tregua di pochi anni, poiché il Papato non poteva rimanere a lungo indifferente alle sorti dei Comuni italiani. Questi infatti, di fronte alla intimazione imperiale di una nuova Dieta a Ravenna (1231), non solo rifiutarono di andarvi, ma si accordarono per difendersi contro un eventuale assalto dell'esercito imperiale, e trassero nella loro alleanza anche la guelfa Repubblica di Genova, nemica perpetua della ghibellina Pisa. Dall'altra parte Federico II stringeva rapporti amichevoli con le città ghibelline e specialmente con Ezzelino IV da Romano, un rude feudatario di origine tedesca che con le sue crudeli ruberie aveva sparso il terrore per tutta la Marca di Treviso e si era fatto signore di Verona.
Le ostilità subirono un arresto, perché Federico II fu costretto ad accorrere in Germania, dove il giovanissimo suo figlio, Enrico, sostenuto anche dai Comuni lombardi, aveva proclamato la rivolta contro il padre e stava raccogliendo, tra i feudatari tedeschi, partigiani ed armati. Ma il ribelle fu presto sconfitto (1235), fatto prigioniero e rinchiuso in un castello della Puglia, dove morì nel 1242.
Tornato in Italia, Federico affrontava energicamente la guerra contro i Comuni, e con l'aiuto di Ezzelino occupava Vicenza, Padova e faceva assediare Brescia. Il 27 novembre 1237 l'esercito della Lega, caduto in un tranello tesogli dall'imperatore, a Cortenova (Bergamo) fu sconfitto; lo stesso Carroccio dei Milanesi fu preso; gli imperiali avevano vendicato la disfatta di Legnano.
I Comuni comunque non si scoraggiarono; Milano rifiutò ogni trattativa di pace; Brescia, dopo un vano assedio, fu lasciata libera. Il papa, che comprendeva come la rovina dei Comuni sarebbe stata la sua stessa rovina, riaccese la guerra religiosa, e accusando Federico di esser venuto meno a tutti i patti giurati, per la seconda volta lo scomunicò, convocando inoltre un concilio a Roma per decidere sulla contesa. Avvenne allora un fatto inaudito: per impedire il concilio, l'imperatore fece assalire dai Pisani presso l'isola del Giglio (1241) la flotta genovese, che portava a Roma i prelati di Francia e d'altre regioni, i quali furono fatti prigionieri e sottoposti a trattamenti non delicati. Qualche mese dopo moriva, quasi centenario, Gregorio IX: per la sua energia egli era stato davvero un degno continuatore della politica di Innocenzo III.
Il successore, Celestino IV, non ebbe che poche settimane di regno, onde alla sua morte Federico potè brigare a Roma per impedire l'elezione di un pontefice contrario ai suoi voleri. Finalmente dopo due anni di vacanza, nel 1243 fu eletto il cardinale Sinibaldo Fieschi, della famiglia ghibellina dei conti di Lavagna, ritenuto amico dell'imperatore: egli prese il nome di Innocenzo IV. "Non si é mai udito che un papa sia ghibellino" disse Federico alla notizia di tale elezione. Infatti il nuovo pontefice non esitò sulla via da seguire, riprese il programma di Gregorio IX, e, recatosi segretamente a Lione, là indisse il Concilio, che il suo predecessore non aveva potuto tenere a Roma. Nonostante l'eloquenza dei suoi ambasciatori Pier delle Vigne e Taddeo da Sessa, l'imperatore, riconosciuto spergiuro, eretico e ribelle, fu scomunicato, e i suoi sudditi vennero sciolti dal giuramento di fedeltà (1245).
In Germania le contese si riaccesero; in Italia si rianimò la guerra. Parma, rocca dei Ghibellini, fu presa dai Guelfi; l'imperatore venne allora ad assediarla, ma in una sortita dei nemici fu battuto e costretto a levare l'assedio (1248). Poco dopo i Bolognesi a Fossalta, presso Modena, vincevano il giovane Enzo, figlio naturale di Federico, da lui nominato re di Sardegna, e, fattolo prigioniero, non lo liberarono mai più. La sventura si abbatteva sull'imperatore. Colto da violente febbri nel castello di Fiorentino in Capitanata, egli moriva nel 1250, all'età di soli 56 anni. Poco prima il suo segretario, Pier delle Vigne, caduto in disgrazia, si era ucciso.

Importanza del regno di Federico Il: sue leggi, suo mecenatismo
Federico II non meritava una fine così dolorosa: lo stesso Frate Salimbene da Parma, che nella sua Cronaca, da buon guelfo, ha cercato di dire di lui il maggior male possibile, è costretto a confessare che "se fosse stato un buon cattolico, pochi imperatori avrebbero potuto stargli alla pari". Fu infatti uomo che per altezza d'ingegno e grandezza d'animo superò i predecessori e in molte cose precorse i tempi, onde lasciò di sé un ricordo molto saldo.
Alla sua sapienza di uomo di governo si deve la più antica raccolta di leggi per il Regno di Sicilia, conosciuta col nome di Costituzioni Melfitane, in cui si trova il meglio delle disposizioni dei Normanni e dello stesso Federico II. In esse domina il senso dell'assolutismo sovrano: questo assolutismo si fonda sulle norme del diritto giustinianeo, rimesso in vigore dai giuristi bolognesi. Lo Stato, concepito da Federico, è il primo Stato in senso moderno del medioevo. Il governo di Federico II è accentratore: perciò nelle Costituzioni Melfitane vengono rivendicati al regno i feudi usurpati, sottomessi i baroni, ristretta la giurisdizione ecclesiastica, limitate e regolate le autonomie comunali. Il potere legislativo é riservato al re, il quale é assistito da un Consiglio privato da cui dipende tutta l'organizzazione burocratica. Anche il potere giudiziario fa capo al sovrano, da cui dipendono i tribunali e l'alta Corte d'Appello (magna curia). Tutto il regime tributario, riordinato, dipende da una suprema Corte dei Conti (magna curia rationum), che controlla anche l'amministrazione finanziaria.
Nel campo della cultura, oltre a favorire col proprio appoggio i dotti del tempo, Federico lasciò larga traccia del suo spirito illuminato, avendo istituito nel 1224 l'Università di Napoli a imitazione di quella di Bologna, e dato incremento alla Scuola medica di Salerno. Singolare benemerenza ebbe nella letteratura italiana, poiché all'ombra della sua corte fiorì una delle prime scuole poetiche della nostra lingua: la scuola siciliana.


Fine della dinastia sveva in Italia (1266) - Re Manfredi e Carlo d'Angiò
Il Concilio di Lione, scomunicando Federico II e sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà all'imperatore (1245), aveva riacceso in Germania la guerra civile. Pretendenti alla corona imperiale erano sorti da ogni parte; contro di essi aveva combattuto Corrado, secondogenito di Federico II, ma con scarso successo. La morte dell'imperatore (1250) non chiarì la situazione; la guerra civile proseguì in Germania per più di venti anni (1250-1273).

Corrado IV volle almeno salvare il suo Regno di Sicilia e scese in Italia (1252), dove però a soli 26 anni fu sorpreso dalla morte (1254), lasciando un figlio, Corrado V (detto poi Corradino), natogli appena due anni prima.
Allora Manfredi, figlio naturale di Federico II, giovane bellissimo e valoroso, dapprima a nome di Corradino, poi a nome proprio, assunse il governo del regno, e nel 1258 si fece coronare re a Palermo, mantenendosi con la forza delle armi, sfidando anche le scomuniche dei papi, i quali desideravano in lui un suddito obbediente.

Intanto per tutta l'Italia era un rinascere delle forze ghibelline; su di esse a poco a poco prevalse la violenta energia di Ezzelino IV da Romano, che, signore di molte città del Veneto, mirava al dominio dell'Italia settentrionale, opprimendo i forti Comuni e massacrando crudelmente quanti gli si opponevano. Allora si destò la reazione guelfa: Ezzelino, disfatto e ferito in battaglia campale a Cassano d'Adda, venne catturato e chiuso in carcere a Soncino, dove, apertesi le ferite, si lasciò morire dissanguato (1259); la sua famiglia fu sterminata, il suo nome maledetto.
Perduto Ezzelino, Manfredi si rivolgeva allora all'Italia centrale e offriva aiuto ai Ghibellini di Firenze, che, cacciati dalla città alla morte di Federico II, tentavano, sotto la guida del valoroso Farinata degli Uberti, di rientrare con la forza. Il 4 settembre 1260 si combattè a Montaperti la battaglia "che fece l'Arbia colorata in rosso" (cfr. Inferno, X): i Guelfi furono disfatti e i Ghibellini occuparono la città, in cui il conte Guido Novello, signore di Poppi, fu accolto come vicario di re Manfredi.
Nel 1265 il papa francese Clemente IV, spaventato dai progressi del partito ghibellino in Italia, offerse al fratello del re di Francia, Carlo d'Angiò, il Regno di Napoli e Sicilia, a patto che si dichiarasse vassallo della Chiesa, rispettasse i diritti del Papato sulle altre terre d'Italia e abrogasse tutte le costituzioni contrarie ai privilegi ecclesiastici. Carlo, avido di dominio, accettò, e con l'appoggio dei Guelfi giunse a Roma, dove fu incoronato re di Sicilia; poco dopo, nei pressi di Benevento, sconfiggeva l'esercito avversario (1266): Manfredi morì in battaglia; la vedova e i figli, caduti nelle mani del vincitore, furono lasciati morire in carcere.


Pietosa fine di Corradino di Svevia (1268)
Dopo la morte di Manfredi e la prigionia di re Enzo, non restava della casa degli Hohenstaufen, che il giovane figlio di Corrado IV, Corradino, allora appena quindicenne. A lui si rivolsero i Ghibellini italiani e quanti in Italia osteggiavano Carlo d'Angiò, divenuto odioso a molti per l'esosa voracità. Nel 1267 il giovanetto entrava in Italia, accolto con entusiasmo dai signori ghibellini, i quali però non seppero aiutarlo a sufficienza. Il 23 agosto 1268 a Tagliacozzo, nei pressi del Lago Fucino, Carlo affrontava con minori truppe, ma con maggiore astuzia, Corradino e lo batteva in campo aperto costringendolo alla fuga. Ricoveratosi nel castello di Astura, presso Anzio, con alcuni dei suoi più fedeli compagni, il giovane fu consegnato a Carlo d'Angiò dai Frangipani, signori del luogo. Corradino e suo cugino, Federico d'Austria,Italia nel XIII° secolo furono decapitati a Napoli sulla Piazza del Mercato il 29 ottobre 1268. Così finiva miseramente una delle più belle e potenti dinastie di imperatori germanici che ricordi la storia del medioevo: quattro anni dopo (1272) nel carcere di Bologna moriva anche Enzo, il prigioniero di Fossalta, dopo aver assistito, forzatamente inerte, alla rovina di tutti i suoi parenti.


Il governo di Carlo d'Angiò nell'Italia meridionale
Il francese Carlo d'Angiò, assicuratosi con la morte di Corradino (1268) il possesso del Regno di Napoli e Sicilia, inaugurò un governo duro, intransigente, rapace.

La tradizione svevo-normanna, che aveva fatto di Palermo il centro politico e culturale del regno, fu spezzata col trasporto della capitale a Napoli, onde l'isola decadde per sempre dal suo antico splendore, allentando i vincoli che la legavano politicamente al continente. I fedeli alla vecchia dinastia furono perseguitati e spogliati dei loro feudi; i Francesi presero i migliori possessi, invasero gli uffici pubblici, angariarono di tasse i vinti, mettendo a dura prova i buoni istituti, fondati dalla savia amministrazione di Federico II.
Nel suo governo Carlo, benché capo riconosciuto del partito guelfo in Italia, ebbe sulla Chiesa e sui Comuni le stesse aspirazioni di dominio degli Svevi. Profittando della vacanza dell'Impero, egli si era fatto dare dal papa il titolo di vicario imperiale. Col pretesto di difendere i Guelfi, aveva assunto la signoria onoraria di parecchi Comuni dell'Italia settentrionale e centrale, e anche di Firenze, ridivenuta guelfa. Nelle faccende di Roma interveniva come padrone, essendosi fatto nominare senatore della città. Non bastandogli l'Italia, Carlo volse lo sguardo all'Ungheria imparentandosi con quella Casa regnante per ereditarne i diritti; poi si diede a sostenere in Oriente l'imperatore Baldovino II, spodestato da Michele Paleologo, nella speranza di ricostruire un giorno a suo vantaggio, l'Impero Latino.
Desideroso di riprendere la politica dei Normanni contro gli Arabi d'Africa, indusse il fratello Luigi IX, re di Francia, a dirigere una Crociata contro Tunisi: fu un disastro, perché il re vi lasciò la vita dopo lunga malattia (1270); Carlo però trasse dalla Crociata il vantaggio di grosse indennità e di un tributo annuo.


I « Vespri Siciliani » (1282), la « guerra del Vespro » e la scissione del regno meridionale
L'invadente operosità di Carlo finì per destare la gelosia dei papi, onde cominciò a essere in pericolo quel buon accordo fra Roma e Napoli, che era stato la causa prima della fortuna rapidissima dell'Angioino.
Ma ben più grave era il malcontento tra i baroni, soprattutto in Sicilia, dove, per l'abbandono di Palermo e per le rivalità con Napoli, era odiata la signoria francese. Un lieve caso bastò a dimostrare quanto fosse precaria laggiù l'autorità di Carlo.

Il 31 marzo 1282 a Palermo, mentre il popolo assisteva alle funzioni pomeridiane della seconda festa di Pasqua nella chiesa dello Spirito Santo, l'atto irriverente di un soldato francese contro una donna siciliana provocò una rissa, la quale dilagò ben presto in una vera caccia ai Francesi: la folla esasperata li massacrò ferocemente a centinaia non solo a Palermo, ma per tutta l'isola.
Questa sommossa, detta dei Vespri Siciliani, suscitò subito una guerra, perché i sollevati, sapendo di non poter reggere di fronte alle forze di Carlo, dopo avere invano invocato la protezione del papa, chiesero aiuto a re Pietro III d'Aragona, offrendogli la corona di Sicilia, alla quale egli vantava diritti per il suo matrimonio con Costanza, figlia di Manfredi.

Alla corte di Pietro D'Aragona c'era Giovanni da Procida, nobile salernitano che, per aver favorito Corradino, era caduto in disgrazia di Carlo e aveva dovuto fuggire dal regno.Vespri siciliani
Uomo dottissimo e saggio, esortò Pietro III ad accettare l'offerta dei Siciliani, cosicché nel settembre dello stesso anno l'Aragonese entrò in Palermo, dove assunse il titolo di re di Sicilia. Insieme coi sollevati si pose anche un altro fuoruscito, il calabrese Ruggero di Lauria, che divenne il più grande ammiraglio del suo tempo; per merito suo la guerra prese una piega assai favorevole agli Aragonesi. Battuta nelle acque di Malta la flotta angioina, Ruggero la sconfisse per una seconda volta nel Golfo di Napoli. riuscendo a far prigioniero lo stesso figlio del re, Carlo, detto lo Zoppo (1284).
Le cose intanto si complicavano: nel 1285, l'anno stesso in cui Carlo d'Angiò spirava a Foggia, moriva Pietro III, lasciando al primogenito Alfonso III l'Aragona e al secondogenito Giacomo la Sicilia. Morto dopo qualche mese anche Alfonso, Giacomo rimase padrone dei due territori e inviò in Sicilia come suo rappresentante il fratello Federico. Ma avendo papa Bonifacio VIII ottenuto da Giacomo la promessa di cessione dell'isola in compenso dell'investitura della Sardegna e della Corsica, i Siciliani, sdegnati di questo mercato, elessero re Federico (1296). Contro il nuovo sovrano e i Siciliani ribelli mossero guerra gli Aragonesi, questa volta alleati con gli Angioini e con Bonifacio VIII.
Carlo di Valois, fratello del re di Francia, d'accordo col papa invase l'isola, senza però ottenere successi definitivi; onde nel 1302 si giunse alla pace di Caltabellotta, in cui si decise che la Sicilia sarebbe rimasta a Federico (il quale prese allora il titolo di re di Trinacria), ma alla morte di lui sarebbe nuovamente tornata agli Angioini; ciò che di fatto non avvenne mai.

Decadenza politica ed economica dell'Italia meridionale.
L'antico e florido regno normanno, diviso così in due parti e impoverito da guerre fratricide, decadde rapidamente dal suo antico splendore; la Sicilia, costretta dapprima a vivere a sé, avulsa dal restante dell'Italia meridionale, e più tardi ridotta a una provincia aragonese, priva della sua brillante corte di Palermo e dimentica ormai della molteplice civiltà portatavi dai Greci, dagli Arabi e dai Normanni, discese a poco a poco al di sotto del livello degli altri Stati italiani, e non esercitò più l'influenza civile e culturale dei tempi di Ruggero II o dello svevo Federico.
A sostituirla non valse il nuovo Regno di Napoli, il quale non riuscì mai a prendere fra gli Stati d'Italia quella supremazia, che, per l'ampiezza del suo territorio e l'abbondanza della popolazione, avrebbe meritata.
Diverse furono le cause di questa decadenza politica e civile dell'Italia meridionale. La prima e più grave di tutte fu la continua contesa dinastica, che per duecento anni travagliò tanto Napoli quanto la Sicilia. Le lotte tra Angioini e Aragonesi di Spagna e di Sicilia, poi tra Angioini-Durazzeschi di Napoli e Angioini d'Ungheria e di Francia, mantennero il regno in perenne disordine, impoverendo le campagne, stremando le popolazioni, abbassando il livello morale di tutta la società, spettatrice di delitti e di nefandezze.
Tuttavia a sì grandi mali non si sarebbe giunti, se quelle terre infelici non fossero state dominate dal più egoistico baronaggio che ricordi la storia.

Impiantatosi assai tardi con la conquista normanna, il sistema feudale si sviluppò rigogliosamente in tutto il regno e in Sicilia, tanto sotto gli Svevi quanto al tempo degli Angioini, dando vita ad una casta nobile, in parte anche di origine tedesca o francese, la quale occupò enormi estensioni di terreno e, arricchitasi, cercò con tutti i mezzi di rendersi indipendente dal sovrano, mantenendo il regno in uno stato di quasi continua anarchia.
La grande potenza della classe feudale impedì che si affermasse nel Mezzogiorno quella borghesia cittadina, che in Lombardia e in Toscana aveva preso la direzione della cosa pubblica. Col perdurare dell'ordinamento feudale si aggravarono presto anche le condizioni economiche del regno. La servitù della gleba, le corvées, i balzelli gravarono le popolazioni campagnole, impoverendole fino all'esasperazione; i soprusi e le violenze dei feudatari provocarono la fuga dei contadini verso i centri abitati; la scarsa sicurezza fece disertare i campi, che, abbandonati dai coltivatori, si trasformarono in terre da pascolo, prive di case, infestate dalla malaria e più tardi dal brigantaggio. La nobiltà impoverita per la diminuzione dei redditi agricoli, non poté più retribuire la mano d'opera necessaria alla coltivazione, e così il problema del latifondo, incolto e malarico, si levò fino a minaccia di tutta la vita economica del Mezzogiorno.